Argentina 1978: il mondiale sporco - Zona Cesarini

Argentina 1978: il mondiale sporco

“Quando il sole della cultura è basso i nani hanno l’aspetto dei giganti”, con questa frase del filosofo tedesco Karl Krause Cesar Luis Menotti accetta l’incarico di diventare il nuovo CT della nazionale Argentina. E’ il 1974 e in Argentina è in corso un lungo e complesso periodo di transizione democratica. La giunta militare si affida in un primo momento al generale Levingston, che, dopo pochi mesi, passerà l’incarico al generale Lanusse per completare il “Grande accordo nazionale”, un piano pensato per sconfiggere Perón, ormai in esilio dal 1955, alle elezioni e smorzare quel sentimento nostalgico che suscitava la sua figura nei più vari strati della società argentina. Le elezioni che vengono indette nel 1973 – alle quali Perón non poté partecipare, visto che un requisito fondamentale era essere residente in Argentina – vedono la vittoria di Hector José Campora, braccio destro di Perón che sta preparando il suo ritorno al potere. Purtroppo, per Perón e per la stabilità dell’Argentina, il mandato presidenziale di quest’ultimo dura solamente 10 mesi: dalle elezioni di settembre, vinte con il 62% dei consensi, al 1º luglio 1974 quando il presidente è colto da un infarto e muore, lasciando un paese con profonde spaccature economiche, sociali e politiche nelle mani della terza moglie Isabelita. 

Passano pochi mesi e tutti in Argentina si accorgono che Isabelita non è Evita; la nuova presidentessa subisce le pressioni interne del suo partito, nel quale i “Montoneros” spingono per una rivoluzione, ed esterne in un paese che sembra dubitare anche del sorgere del sole. Per tenere a bada la violenza irrefrenabile che divampa nel partito peronista viene istituita la Tripla A, l’Alleanza Anticomunista Argentina, il cui principale sponsor è José Lopez Rega, figura sinistra della politica argentina che Isabelita assume come consigliere personale. Le violenze perpetrate dalle Triple A hanno l’obbiettivo di annientare il peronismo progressista, come spiega Rolo Diez, che tracciando la composizione di queste squadracce identifica come membri “delinquenti fascisti dall’identità peronista”. 

Il Paese non può andare avanti così, la crisi si inasprisce ulteriormente tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976 e sempre più osservatori individuano nel generale Jorge Videla l’uomo che sarà in grado di prendere per mano l’Argentina e portala in lidi migliori. Ancora prima di sapere come prendere il potere e cosa farci Videla e la sua junta hanno, però, ben chiara una lezione imparata dal colpo di stato cileno del settembre 1973: in Argentina non ci saranno spargimenti di sangue, non ammasseremo i prigionieri politici nei grandi stadi come ha fatto Pinochet a Santiago, chi non è d’accordo dovrà sparire nel nulla. 

Foto di La Capital

Isabelita viene rovesciata e arrestata la notte del 24 marzo 1976 e poche ore dopo, con il sorgere del sole, l’Argentina si sveglia salutando il Proceso de Reorganización Nacional. In quei giorni la nazionale è in Polonia, dove è programmata un’amichevole. Quando Menotti si rende conto di cosa sta succedendo a casa nella sua mente si aprono due strade che potrebbe percorre con le sue lunghe e sottili gambe: dovrei tornare a Buenos Aires o potrei provare una fuga all’estero, magari trovando una squadra in Europa? Dopo la partita, vinta 1-2 dall’Albiceleste, El Flaco si convince a tornare in patria. Ma anche questa volta lo fa alle sue condizioni, la più impattante sul macrocosmo del calcio albiceleste è il veto che impone alle squadre di Serie A di vendere i loro giocatori all’estero, l’unica eccezione sarà El Matador Kempes al quale era stato promesso che avrebbe potuto andare a giocare per Di Stefano al Valencia. 

Con il ritorno a casa Menotti deve stare attento a come muoversi e cosa dire. Per esempio non dirà mai una parola contro il regime per non perdere la panchina, solo molti anni dopo uscirà allo scoperto dichiarandosi simpatizzante comunista. Ideologicamente la junta e Menotti erano agli antipodi, ma i militari apprezzavano la filosofia del Flaco che metteva al centro del villaggio la preparazione fisica e la preminenza del gruppo sul singolo; inoltre Menotti era legittimato dal fatto di essere il miglior allenatore possibile per la nazionale argentina.

La squadra che Menotti ha in testa è strutturata su un 4-3-3. I tre giocatori fondamentali sono: Daniel Alberto Passarella del River Plate. Capitano, kaiser e leader. Si dice che a cinque anni si fosse imposto di diventare mancino per continuare a giocare a calcio dopo un incidente che lo costrinse a portare un gesso alla gamba destra. Non solo continuò a giocare ma diventò il più forte libero della sua epoca e uno dei difensori più prolifici di sempre, nonché unico argentino a vincere due campionati del mondo. Osvaldo Ardiles dell’Huracan, un furetto di 169 centimetri in continuo movimento. E’ impossibile giocare come fa lui: tocca tantissimi palloni ma è sempre lucido, sembra tedesco più che argentino per la lucidità che ha. El Matador, Carlos Alberto Kempes, colui che stando a Maradona “Ha messo l’Argentina sulla mappa del calcio mondiale”. Kempes sarebbe moderno oggi figuriamoci allora, è un giocatore che può occupare tutte le posizioni dell’attacco con gambe – e capelli – chilometrici, capace di partire da lontano associandosi coi compagni – il primo gol al Perù ne dà dimostrazione – o di essere decisivo negli ultimi 16 metri, qui invece citofonare a Jongbloed per informazioni. E’ un nove e un dieci in un unico giocatore. 

Foto di Pulzo

L’unico dubbio che Menotti non riesce a districare è cosa fare con il numero 10 dell’Argentinos Juniors, tale Diego Armando Maradona? Certo, è molto forte, ma ha solo 17 anni e i mondiali li guarderà da casa. Mentre le mani della FIFA smistano le 16 squadre nei 4 gironi che comporranno il tabellone del mondiale le mani della junta mettono a punto la più grande macchina repressiva/propagandistica del dopoguerra. Vengono istituiti 340 centri di detenzione e Buenos Aires si trasforma in una città dove tutti possono essere sospettati e incarcerati anche solo per aver frequentato persone sospettate di simpatie comuniste. A differenza di quanto successo in Cile, però, la violenza non è volgarmente esibita per dare prova di un autoritarismo esasperato, anzi, il regime prova con tutte le sue forze a spingere sotto il tappeto le azioni di repressione contro la popolazione. I centri di detenzione sono di diversi tipi e dimensioni, si va dalla sconfinata ESMA all’angusto Garage Olimpo che sarà poi raccontato in un film del 1999 di Marco Bechis. La cosa importante è che negli stadi non entrino prigionieri ma calciatori, giornalisti e tifosi. 

La partita di inaugurazione del mondiale è un insipido 0-0 tra i campioni in carica della Germania Ovest, indeboliti dal ritiro di Beckenbauer e Muller, e la Polonia, che sta vivendo i suo anni d’oro e ha concluso al terzo posto i mondiali precedenti. L’Argentina – nel girone con Italia, Francia e Ungheria – è di scena il 2 giugno al Monumental. L’inizio per i padroni di casa è tutt’altro che tranquillo visto che al 10’ Csapo ha già portato avanti i magiari con un gol da pochi metri. Gli albicelesti, incoraggiati dai 70 mila del Monumental, vengono fuori alla distanza e grazie a Luque e Bertoni riescono ad assicurarsi i tre punti in rimonta. Dopo aver battuto la Francia, l’Argentina si gioca tutto all’ultima giornata sul prato del Monumental dove Zoff e Passarella si stanno scambiando i gagliardetti prima del fischio di inizio di Italia-Argentina (gli azzurri avevano battuto Francia e Ungheria). Chi vince può rimanere a Buenos Aires, allo sconfitto toccherà proseguire il torneo a Rosario. La partita è molto fisica, Menotti esige dai suoi un’aggressività motivata anche dalla propensione dell’arbitro ad ammonire poco o nulla, ma piena di occasioni: l’Italia crea con i suoi centrocampisti e sfrutta la chimica tra Rossi e Bettega e l’Argentina prova a sfondare con un Kempes corsaro. Dopo più di un’ora di gioco le squadre sono ferme sulle 0-0 – che premierebbe l’Italia grazie alla miglior differenza reti – ma la squadra di Bearzot va in vantaggio con un meraviglioso triangolo Bettega-Rossi che mette Bobby davanti alla porta per l’1-0. 

Foto di Barcalcio

All’epoca non esisteva una fase ad eliminazione diretta, quindi dopo i gironi si sarebbe disputata un’altra fase a gironi con le migliori otto squadre della competizione. Lontana dalla capitale e in un girone di ferro con Brasile, Polonia e Perù la squadra di Menotti dovrà far ricorso a tutte le sue energie fisiche e mentali per arrivare alla finale. Alla prima giornata passeggia 2-0 con la Polonia, doppietta di Kempes; mentre tre ore prima il Brasile aveva battuto 2-0 il Perù: l’Argentina aveva chiesto e ottenuto di non giocare le partite in contemporanea con il Brasile così da poter giocare in funzione del risultato verdeoro. Alla seconda giornata i due rivali sudamericani pareggiano per 0-0. Questo significa che il Brasile si giocherà tutto con la Polonia e l’Argentina dovrà battere il Perù per qualificarsi. 

Il 21 giugno alle 18:15, ora locale, il Brasile entra negli spogliatoi dopo aver regolato la Polonia per 3-1. All’Argentina servirà vincere con quattro gol di scarto contro il Perù per tornare a Buenos Aires. L’umore nei due ritiri è diametralmente opposto, i peruviani, reduci da due sconfitte in altrettante partite, sanno che dopo quegli ultimi novanta minuti potranno salutare l’Argentina e chiudere una delle più belle esperienze della loro vita. Come raccontato più volte dalla delegazione di Lima la squadra fu trattata benissimo dall’organizzazione e dalla polizia che era solita presidiare il loro albergo per evitare fastidi e aiutarli a prepararsi al meglio. La notte del 20 giugno però gli agenti lasciarono il loro posto e i rosarini ne approfittano per disturbare il Perù con cori, petardi e tamburi. Questo mondiale ha richiesto uno sforzo troppo grande, non si può concludere se non con una vittoria. 

Gli Argentini invece sono tutt’altro che rilassati, si stanno giocando tutto. Molti hanno dovuto rimanere in patria per questo mondiale e sanno la sofferenza che il regime sta causando al loro popolo, inconsciamente si vedono come l’ultima luce di speranza per un paese sprofondato nel buio.

Anche nel tragitto dagli alberghi allo stadio le due squadre sperimentano un diverso trattamento: l’autista del bus peruviano viene pagato per allungare la strada e rendere il veicolo bersaglio di sputi, lanci di oggetti e insulti; anche l’Argentina ci mise molto a percorre il tragitto perché il pullman rimase imbottigliato in un traffico di cori, bandiere e incoraggiamenti. 

Eccoli che arrivano al Gigante De Arroyto, gli eroi albicelesti e i “martiri” peruviani. Passarella guida i suoi nello spogliatoio e così fa Chumpitaz, capitano degli ospiti. Di quello che succede da qui in poi non si ha certezza su nulla, sappiamo per certo che Videla e Kissinger hanno fatto una visita allo spogliatoio peruviano per ricordare ai “martiri”, citando Videla, “La fratellanza sudamericana che lega i nostri due paesi”. Negli anni seguenti si è parlato a lungo di una linea di credito tra Lima e Buenos Aires che avrebbe permesso ai peruviani di ottenere 350mila tonnellate di grano e varie armi dal governo argentino, ma mai nulla di tutto ciò è stato confermato. Dopo la “visita” di Videla il Perù è pronto a scendere in campo. Il CT Calderón ha deciso di schierare il suo 11 tipo: Quiroga, nato a pochi metri dal Gigante de Arroyito, Duarte, Manzo, Chumpitaz, Velasquez, Muñante, Cueto, Cubillas, Oblitas, Quesada, Rojas. Anche Menotti si affida ai suoi fedelissimi, fatta eccezione per Ardiles che deve scontare un turno di squalifica. 

Suonano gli inni e la partita può finalmente iniziare. La prima porta che viene minacciata è quella difesa da Fillol. Muñante riceve un lancio di 30 metri che scavalca la difesa e con un dolcissimo scavetto prova a portare in vantaggio i suoi. Ci deve pensare il palo a ricacciare in gola l’urlo di gioia degli ospiti. L’Argentina è più forte ma deve dimostrarlo, la riscossa passa ovviamente dai piedi del Matador Kempes che sta per dimostrare a tutti perché alla fine del torneo sarà eletto capocannoniere. Riceve da Bertoni sulla trequarti e dopo un triangolo arpiona il pallone con quel suo sinistro affilato come la sciabola di un pirata e dolce come la penna di un poeta, e batte Quiroga con un tiro rasoterra. Il 2-0 arriva con un colpo di testa su calcio d’angolo di Tarantini, perso colpevolmente dalla difesa peruviana. Il terzino esulta rabbiosamente, corre in un urlo ripreso quattro anni dopo da Marco Tardelli, e sembra urlare: “Dai, dai che ce la facciamo”. 

Nel secondo tempo la potenza offensiva albiceleste, incarnata in Luque e Kempes, fa a brandelli il Perù. Il 3-0 lo segna ancora il numero 10, questa volta con una conclusione sotto porta che lascia Quiroga come una statua di sale nella porta blanquirroja. I secondi che precedono il 4-0 di Luque coincidono con uno dei messaggi più eclatanti che la dittatura ha voluto mandare al popolo e al mondo. A 300 km di distanza, nella capitale, deflagra una bomba nella casa del ministro delle finanze argentino, reo di aver criticato aspramente le spese sostenute per l’organizzazione del mondiale. La repressione è sempre in moto, anche mentre Houseman e Luque fissano il punteggio sul 6-0 migliaia di argentini sono torturati o gettati vivi nell’oceano.

 

Missione compiuta! Si torna a Buenos Aires dove ad aspettare l’Argentina c’è la squadra che la aveva umiliata quattro anni prima, l’Olanda orfana di Johan Cruijff. Menotti non ha molto da dire ai suoi, si fida ciecamente del suo generale in campo Passarella, guarda Kempes e lo vede al suo meglio di sempre e sa che potrà contare sul pubblico. I 70mila di Buenos Aires rendono lo stadio un catino infernale, gettando coriandoli e colorando le tribune con centinaia di bandiere. L’unica cosa che dice ai suoi prima di entrare in campo è: “Giocate per il pubblico, non per loro (i generali, ndr), giocate per i panettieri, per i tassisti, per i muratori; non per il potere”. L’Olanda entra dieci minuti prima in campo, Menotti intuisce che la vittoria passa anche dal pubblico e sa che il ruggito dei 70mila non lascia scampo neanche ai giocatori più esperti. L’Argentina, con tutta calma, entra in campo e il Monumental esplode, c’è un clima da carnevale di Rio, sembra che ogni presente abbia un drappo albiceleste per incitare la squadra. 

Foto di Tokyovideo

La partita, brutta e fisica, rispecchia tutti i crismi delle finali. Bisogna aspettare la fine del primo tempo per il gol che la sblocca. Batman-Kempes riceve un passaggio di Robin-Luque al limite del area e con il suo controllo del corpo abbinato alla raffinata tecnica di base si ritrova dentro l’area da dove in scivolata sigilla il vantaggio, per poi correre tra i coriandoli lanciati sul prato del Monumental. Più passa il tempo e più le mani dell’Argentina si allungano verso la coppa fino a che, all’82’, il neo entrato Nanninga sale in cielo per correggere di testa un cross di Rene Van de Kerkhof. L’unico altro avvenimento degno di nota è il palo che Resenbrinck colpisce a tempo scaduto sugli sviluppi di un calcio d’angolo che, di fatto, consegna la coppa all’Argentina. 

Prima di sollevarla però c’è ancora spazio per una gol fenomenale di Kempes che con le sue lunghe leve riesce a controllare un passaggio di Luque per poi fiondarsi in area di rigore dove Krol e Jansen sono spettatori della sua cavalcata verso Jongbloed. Il portiere olandese riesce a parare il primo tiro del Matador, che però riesce a segnare sfruttando un rimpallo favorevole. Nel secondo tempo supplementare non succede nulla di che a parte il gol di Bertoni che corona un mondiale meraviglioso del numero 4. 

Foto di George Tiedemann/Sports Illustrated/Getty Images

E’ l’apoteosi, il momento più bello per la junta e il più duro per chi ne è vittima. Videla vuole consegnare di persona la coppa a Passarella, che una volta ricevuta non la alza sopra la testa ma protrae il braccio sinistro lontano, verso gli spalti. Vuole rendere partecipi tutti del trionfo appena consumato e quella coppa è l’unica prova tangibile che tutti gli sforzi e le privazioni che gli argentini hanno dovuto subire non sono stati vani. Quella coppa è lo scudo dietro al quale rifugiarsi, lo schermo che li protegge dai giudizi del mondo, ma è anche irrimediabilmente ed eternamente macchiata di sangue. Un sangue che nemmeno la storia potrà lavare.