Perché autoprodurre la propria maglia? - Zona Cesarini

Perché autoprodurre la propria maglia?

Non so voi, ma io, ogni volta che torno da un viaggio devo portare a casa una maglia da calcio, che poi finirà ad arricchire la mia collezione e mi darà da pensare quando dovrò scegliere cosa mettere per la partita di calcetto del giovedì. Le maglie possono essere classificate seguendo vari criteri: il colore, la stagione, il paese di provenienza o la marca. Quest’ultimo è un dettaglio abbastanza insignificante per noi tifosi che, senza dubbio, abbiamo dei gusti estetici che ci fanno preferire un produttore ad un altro ma che poi alla fine non influiscono più di tanto sull’acquisto o meno della maglia della nostra squadra. Una notizia di questi giorni è che il Napoli – il cui contratto con Robe di Kappa è in scadenza il prossimo giugno – starebbe pensando di autoprodurre le maglie per la prossima stagione. Se questa strada dovesse essere seguita gli azzurri non sarebbero la prima squadra ad abbandonare uno sponsor tecnico per puntare a delle divise “fatte in casa”, ma chi sono state le altra squadre che hanno deciso di autoprodurre le proprie maglie? 

Produrre una maglia non è una cosa facile, oltre alla manodopera e alla ricerca dei materiali le squadre si affidano a designer, grafici e esperti di tendenze per intercettare le mode del momento e adattare le loro divise, cercando di entrare nel mercato del fashion, oltre che in quello calcistico. Spesso, però, trascinate da colori sgargianti, pattern innovativi o gusti dettati da tifosi che non vedranno mai la divisa dal vivo, per lontananza geografica soprattutto, le società snaturano completamente i loro simboli e i colori che li hanno contraddisti per più di un secolo di storia, indossando maglie simili a quelle di altre squadre che dietro non hanno un processo creativo ma una semplice esigenza di marketing, ne sono un esempio le terze maglie di Roma e Inter per la stagione 2016/2017: uguali nel design ma di diversi colori, più simili a due lattine di bibite indegne per due società storiche del calcio italiano.  

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Foto di Sky Sport

Questo modello di business cozzava con la visione del football kit di Steve Lansdown, numero due del Bristol City, squadra che attualmente milita in Championship. Lansdown vedeva nella maglia un mezzo per esprimere creatività e avvicinare i tifosi alla squadra della loro città. E’ da queste premesse che nel 2014 nasce Bristol Sport, una marca di proprietà del Bristol City che avrebbe vestito non solo la squadra maschile di calcio ma anche quella femminile e quella di rugby. Lansdown ha spiegato che questa scelta è stata dettata dal bisogno di avere più flessibilità nel processo di creazione della maglia e con lo scopo di avere una maglia che fosse soltanto del Bristol City, senza dover riciclare maglie utilizzate da altre squadre in stagioni precedenti.

L’obbiettivo di Lansdown però non era creare qualcosa di anacronistico ma dare al Bristol City una dimensione contemporanea senza però perdere di vista i tifosi, che si sarebbero dovuti rispecchiare in pieno nei nuovi kit. Il Bristol City con questa mossa voleva fidelizzare al massimo i suoi tifosi facendoli sentire unici e avendo la certezza che i pattern, i dettagli o le cuciture delle proprie maglie non sarebbero stati visti indossati da nessun avversario. Per completare l’opera di fidelizzazione il Bristol ha deciso di regalare una maglia a ogni bambino che avesse sottoscritto un abbonamento annuale a Ashton Gate così da creare una solida base di tifosi anche in ottica futura. Il Bristol ha autoprodotto le proprie divise per sei stagioni fino a che nel 2020, dopo che i Bristol Bears avevano raggiunto un accordo con Umbro, ha deciso di firmare anche lei con il marchio inglese. 

Foto di Soccerbible.com

In Inghilterra le squadre autoproducevano le proprie divise già ben prima del 2014, la prima è stata il Luton Town nel 1994, seguita dal Preston North End che non ha avuto sponsor tecnici esterni dal 1996 al 2000. Ma l’esempio che più ci spiega il legame viscerale tra i supporters inglesi e le loro squadre di calcio è abbastanza recente: siamo nella stagione 2012/2013 e il Southampton, dopo sette anni di purgatorio, è tornato in Premier League. Sarebbe tutto perfetto, la squadra ha degli ottimi elementi, a gennaio la panchina viene affidata ad un Mauricio Pochettino in rampa di lancio e il St. Mary’s Stadium è quasi sempre pieno, l’unica cosa che rovina il ritorno nella massima serie dei Saints è la maglia. La maglia del Southampton è sempre stata a righe bianche e rosse – che torneranno nella nostra storia – accompagnata da pantaloncini neri. Ma quest’anno quelli della Umbro hanno deciso che la maglia non avrebbe avuto poche larghe righe, ma ne avrebbe avute tante e strette e i pantaloncini sarebbero stati rossi. Come? Torniamo in Premier dopo anni e voi ci fate giocare con questo pigiama? Non esiste.

I tifosi – vera benzina che fa girare la giostra – decisero di boicottare la maglia, in alcune interviste effettuate poco dopo la presentazioni molti dichiararono di non avere la minima intenzione di acquistare una maglia che dei Saints non aveva niente. E quindi dopo un anno di Premier League con le righine sottili della Umbro il Southampton decise di autoprodursi – come già aveva fatto dal 1999 al 2008 – le maglie da gioco, ripristinando le vecchie righe e i pantaloncini neri. Purtroppo le maglie marchiate Saints ebbero vita breve dato che dalla stagione successiva il Southampton si affidò ad Adidas e poi a Under Armour per le proprie divise. 

Foto di Passione Maglie

Un caso simile di maglie autoprodotte per esigenze estetiche arriva dalla Francia, con il Le Havre squadra francese fondata nel 1872, la più antica del paese. Nel 2015 decise di interrompere i rapporti con Nike, rea di aver tradito i colori storici della società per motivi commerciali. Il presidente Louvel all’indomani della creazione della propria marca di abbigliamento sportivo ha dichiarato: “I nostri colori sono il blu in onore dell’Università di Oxford e celeste come quella di Cambridge che si devono affiancare verticalmente, occupando le medesime proporzioni. Non abbiamo nulla contro la Nike e, sia chiaro, ne capiamo le logiche commerciali ma era necessario porre un freno al processo di standarizzazione delle nostre divise secondo le logiche commerciali”. Ciò che interessava alla società era la prima maglia, infatti, la seconda – bianca – è rimasta griffata Nike, che non ha voluto appellarsi a contratti o clausole. Questo è il primo caso di una squadra con una maglia di un marchio e una di un’altro. 

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Foto di Maillot Foot Actu

Fin qui abbiamo visto come la decisioni di autoprodurre le proprie divisa da gioco sia dettata sopratutto da esigenze estetiche o di appartenenza ma c’è una squadra abbastanza particolare che ha deciso di autroprodurre la proprie maglie per ragioni ecologiche e politiche. Il Sankt Pauli, è la squadra più famosa di Amburgo, è contraddistinta da una tifoseria di estrazione popolare, di sinistra e abbastanza bohémien. La cosa che più odiano al Millerntor-Stadion, anche più dell’Amburgo, è il capitalismo e lo sfruttamento. Ecco perché nel 2020 la società ha deciso di cessare la sponsorizzazione con Under Armour, marchio statunitense vicino agli ambienti repubblicani, per creare DIIY, una marca di abbigliamento sportivo che produrrà le divise a partire dalla stagione 2021/2022. I kit saranno prodotti con materiali ecosostenibili, garantendo le migliori condizioni lavorative agli operai e un salario dignitoso. 

maglia divisa st pauli
Foto di Football Fashion

Le maglie autoprodotte non sono una prerogativa dei club europei, e anche se in Sudamerica non hanno attecchito come nel vecchio continente, ad esempio il Coritiba ha deciso di lanciare il proprio brand di abbigliamento sportivo. 1909, questo è il nome dato dall’anno di fondazione della squadra, è autore di una maglia celebrativa per ricordare Dirceu Krüger, centrocampista che ha speso l’intera carriera al Coritiba venuto a mancare il 25 aprile 2019. Krüger è già stato omaggiato dal Coxa con una statua fuori dal Couto Pereira e 1909 ha attinto proprio da questa statua per realizzare la maglia, che presenta delle righe verticali oro e bronzo impreziosite da dettagli neri su maniche e collo. Anche la data di lancio è stata simbolica visto che coincideva con il compleanno della squadra, il 12 ottobre 2020.

Foto di Nss Sport

In Spagna l’unico caso di divise autoprodotte arriva dal nord, più precisamente da Bilbao, dove nel 2001 è stata lanciata la Marca Athletic, una marca di abbigliamento che avrebbe prodotto le divise da gioco e l’abbigliamento per il tempo libero il cui simbolo era un omino stilizzato che correva a braccia alzate. La Marca Athletic, nonostante sia stata fornitrice per sette stagioni delle divise da gioco, non ha lasciato solo buoni ricordi tra i tifosi bilbaini. In queste sette stagioni l’Athletic disputò competizioni UEFA due volte, nel 2004/2005 la Coppa UEFA e la stagione successiva la Coppa Intertoto.

Per celebrare la partecipazione alla Coppa UEFA il presidente dell’epoca, Fernando Lamikiz, commissionò all’artista Dario Urzay – famoso per i suoi quadri realizzati con macchie e schizzi – una maglia speciale. Purtroppo Urzay non aveva capito che dipingere una maglia non è come dipingere una tela e partorì la “camiseta ketchup”,  utilizzata solo in un amichevole e poi inserita nelle 20 peggiori maglie da calcio da Bleacher Report e nel museo ARTIUM di Vitoria. Ma i danni non erano finiti qui. Sin da quando l’Athletic aveva adottato il colori biancorossi, in onore al Southampton, non aveva mai avuto sponsor sulla maglia. Finché nel 2008 venne firmato un accordo con Petronor per inserire il nome dell’azienda petrolifera sulle sacre righe biancorosse. Dalla stagione successiva le maglie dell’Athletic furono prodotte da Umbro, fino ad arrivare alle divise griffate New Balance attuali, ma sul sito dell’Athletic si può ancora trovare una sezione di moda casual con abbigliamento autoprodotto.

Ovviamente anche in Italia ci sono stati esempi di maglie unbraded o artigianali. La più famosa è stata senza dubbio quella della Roma per la stagione 2013/2014, peculiare per il collo a Y, in omaggio al Roman FC, progenitore della Roma. Un’altra peculiarità è che questa divisa non solo non presentava una sponsor tecnico ma nemmeno uno sponsor principale, visto che sul petto campeggiava la scritta Roma Cares. Nonostante la mancanza di questi elementi non possiamo definire questa divisa come autoprodotta dato che la maglia della Roma è stata realizzata dall’Ares SRL, società controllata da Asics. La paternità per la prima maglia autoprodotta nella storia della Serie A è dunque dell’Udinese, che nel 2013 ha iniziato a vestire maglie HS Football – marchio controllato dall’allora direttore marketing della squadra friulana – per poi affidarsi a Macron dal 2018. 

Foto di Passione Maglie

Ad oggi nel calcio professionistico italiano solo il Lecce autoproduce le proprie divise da gioco, potendo contare sul marchio M908 nato nel 2018 ed entrato in azione dopo la scadenza della sponsorizzazione Legea. Il vicepresidente Carlo Liguori ha motivato questa decisione con la volontà di incrementare i ricavi nel lungo periodo, potendo controllare l’intero processo produttivo e incassando interamente i ricavi dalla vendita del merchandise, per poterli reinvestire nello scouting e nel settore giovanile. “Nel breve periodo, la società ci perderà qualcosa: dovremo rinunciare a molti soldi, ma a lungo andare ne raccoglieremo i frutti e saremo pronti a reinvestirli per il bene di questa squadra” ha dichiarato il vicepresidente Carlo Liguori.

Foto di Calcio e Finanza

Senza addentrarci nelle strategie di marketing di De Laurentiis, quella di autoprodurre le divise del Napoli potrebbe essere un’idea intrigante, a sostegno della quale come abbiamo visto non mancano precedenti degni di nota.