All'Olimpiade è stato bello riscoprire Dani Alves - Zona Cesarini
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All’Olimpiade è stato bello riscoprire Dani Alves

Nel post su Instagram che racconta il viaggio verso Tokyo 2020, sull’aereo che portava lui e la nazionale maschile di calcio brasiliana alle Olimpiadi, Dani Alves ha usato quel tono a metà tra il pastore evangelicista e lo youtuber motivazionale che abbiamo imparato a conoscere. Ha scritto che «siamo fatti di energie», che la scelta su come utilizzarle «è tua e anche le conseguenze», e ha invitato ciascun follower a essere «sempre presente nel presente», uno slogan che potrebbe stare in bocca al Tom Cruise di Magnolia di Paul Thomas Anderson.

La foto associata al post invece è scherzosa, disimpegnata: Dani Alves è seduto sul sedile dello steward di volo, indossa la salopette e il foulard al collo di uno steward, impugna la cornetta dell’interfono alla stessa maniera affettata di uno steward, mentre che con la voce cantilenante di uno steward trasmette ai compagni di viaggio le indicazioni di sicurezza precedenti il decollo. (D’accordo, quest’ultima parte non è udibile nella foto; nella prossemica di Dani Alves però tutto è così sovrapponibile alle maniere di uno steward, che se guardi bene la foto riesci anche a sentire quella voce). Una scena 100% Dani Alves: l’amico più pazzo della compagnia che non smette un momento di fare il giullare.

Dopotutto abbiamo conosciuto Dani Alves come un personaggio eccentrico e stravagante. Tra i momenti di locura più virali del calcio contemporaneo molti hanno lui per protagonista: Dani Alves che sfoggia solo look pazzi e somiglia un po’ a Lenny Kravitz un po’ a Robbie Williams; Dani Alves che scende le scale mobili sdraiato sul corrimano prima di una finale di Champions, o che apre le bottiglie di birra con un salto mortale; Dani Alves appassionato di musica che balla, suona la chitarra, duetta in TV con il fratello cantante, o che su Instagram ha un alter ego in versione scimmietta; poi la più famosa di tutte: Dani Alves che durante una partita mangia la banana che uno spettatore razzista gli ha tirato. Le compilation che su YouTube raccolgono le sue diavolerie hanno titoli come “Il calciatore più divertente di sempre” oppure “I suoi momenti più pazzi”, e rappresentano bene la personalità di un calciatore leggero come l’aria. Uno che durante la sua carriera ha giocato sui palcoscenici più prestigiosi come se stesse pizzicando la chitarra sdraiato su un’amaca.

Dani Alves ha trentotto anni e rispetto agli anni migliori il suo fisico sembra essersi asciugato, indurito in un unico fascio di muscoli con sopra uno strato di tatuaggi. Gli occhi hanno la stessa vitalità di sempre: due fari verdi che gli disegnano un’aria vispa e dispettosa da piccolo Green Goblin, tutt’attorno però la pelle del volto ha cominciato a irrigidirsi e a mostrare le vene che pulsano sulle tempie. Un’altra cosa non è mai cambiata in Dani Alves: la voracità di trofei con cui, nel corso della carriera, è diventato il calciatore più vincente della storia (con l’oro olimpico è al momento a 44 titoli; seguono l’egiziano Hossam Hassan con 41 e Messi con 38) e che in qualche modo strano è sempre convissuta con un lato così frivolo e spensierato.

«Se qualcosa abbiamo davvero compreso dopo averlo visto solcare la fascia destra per un decennio e mezzo in Europa, è che la sua figura bisogna considerarla su due piani», ha scritto Marcel Beltran in un articolo uscito su Panenka, intitolato “Perfetto impostore”. «Da un lato c’è il Dani Alves frivolo, rilassato; dall’altro il Dani Alves vorace che calca il campo di gioco». Il tema insomma sembra essere quello della professionalità contrapposta al disimpegno; l’ossessione alla leggerezza. Se accettiamo queste categorie come antitetiche, sostanzialmente incomunicabili, nel nostro immaginario Dani Alves rappresenta invece quella persona che è riuscita a incorporarle entrambe. Un prodigio di trasformismo: Dr. Jekyll e Mr. Hide. Una personalità così ineffabile ed eccentrica da non essere riducibile in nessuna categoria aristotelica troppo rigida.

A queste Olimpiadi Dani Alves ci è arrivato come capitano e leader emotivo della squadra brasiliana – il ruolo che nella precedente edizione, a Rio, era stato di Neymar, e che dopotutto è coerente con il suo status di calciatore più esperto in una rosa di under-23 – ma anche in maniera un po’ casuale. A maggio era stato convocato da Tite in nazionale maggiore per le qualificazione mondiali contro Ecuador e Paraguay, tuttavia un infortunio al ginocchio subìto con il San Paolo, il club in cui gioca dal 2019, lo aveva costretto a rinunciare. A saltare, cioè, non solo le partite di qualificazione, ma soprattutto la successiva Coppa America di giugno. La soluzione al problema è stato uno scambio tra nazionali: Emerson Royal, terzino destro preselezionato per la nazionale olimpica, è stato promosso in nazionale A per la Coppa America; Dani Alves, una volta superato l’infortunio, è andato ai Giochi Olimpici come uno dei 3 fuoriquota. «Ho sempre sognato di partecipare alle Olimpiadi. Sono un patriota: rappresentare il mio Paese in una competizione così importante e magica è davvero incredibile» ha detto il giorno in cui la convocazione è stata ufficializzata. «Vincere l’oro è una grande responsabilità, ma è per questo che vivo».

Il torneo di calcio maschile non è tra le specialità più emozionanti delle olimpiadi. Un problema che riguarda tutti gli sport di maggior seguito, quelli che si sono creato un’epica solida e ricca di eventi prestigiosi all’infuori del circuito olimpico. Tuttavia il calcio maschile è una storia ancora a parte. Tanto per cominciare è l’unica specialità che, con una soglia massima di età fissata a 23 anni, impedisce la partecipazione ai professionisti già affermati (sono ammessi solo tre fuoriquota per ciascuna selezione): una regola nata probabilmente per evitare conflitti di status con il Mondiale FIFA, ma d’altra parte è facile leggerla come un segno di rigetto dello sport olimpico verso il calcio contemporaneo. Una reazione del sistema immunitario contro una parte del corpo giudicata infetta. Il risultato è un torneo anonimo, largamente ignorato da stampa e tifosi, in genere «vuoto di narrazioni, trame, momenti e squadre memorabili», come ha scritto recentemente Jonathan Liew sul Guardian.

In questo scenario la presenza di Dani Alves all’Olimpiade, la sua aura di maestro artigiano a capo di un gruppo di giovani apprendisti, è stata forse la storyline più interessante del calcio maschile a Tokyo 2020.

Certo, era innanzitutto la storia del calciatore più vincente di sempre che provava a prendersi un’altra medaglia, una delle pochissime che gli mancavano. Tuttavia già la sua sola partecipazione implicava un record affascinante, quello di aver partecipato a tutte le competizioni ufficiali con la nazionale brasiliana dall’under-20 in su. Una chiusura del cerchio che racconta bene l’amore di Dani Alves per la sua nazionale, l’impegno che ha sempre messo per onorarla: «La selezione è sempre stata una priorità. Per me difendere il mio Paese, difendere questa maglia, è sacro» ha detto dopo il debutto nel torneo contro la Germania.

D’altra parte la prospettiva di restare più vicino all’opinione pubblica del suo Paese, cioè in maggiore considerazione per la Nazionale, è stato il motivo principale per cui, nel 2019, aveva deciso di tornare a giocare in Brasile dopo la lunga carriera europea. Con un obiettivo dichiarato: esserci al Mondiale in Qatar. «Giocare ai prossimi Mondiali è il mio più grande proposito. Da quando ho lasciato il PSG ho promesso a me stesso che avrei dato assolutamente tutto per essere al Mondiale», ha detto di recente. Eppure la sua totale dedizione al lavoro in nazionale non è stata apprezzata proprio da tutti: i suoi tifosi al San Paolo – il club che lo ha riportato in Brasile nel 2019, nonché sua squadra del cuore fin da ragazzo – ad esempio non hanno visto di buon occhio la decisione di andare a Tokyo, e di recente hanno chiesto al presidente la sua rescissione per aver «lasciato il SPFC nella fase più delicata dell’anno, per giocare con i ragazzi alle Olimpiadi».

“Giocare con i ragazzi alle Olimpiadi” è una sottolineatura che mostra bene i bias che circondano questo evento. Quello di un torneo giovanile, quindi sostanzialmente inutile, quasi amichevole; e di conseguenza l’irresponsabilità di Dani Alves che si mischia con i ragazzini invece di prendersi le sue responsabilità di adulto. Anche se i tifosi del San Paolo lo intendevano con un’accezione negativa, presto ci siamo accorti che c’era anche una certa bellezza in tutto questo.

Come uno sciamano che celebra l’iniziazione dei giovani del villaggio, Dani Alves ha davvero giocato l’Olimpiade con l’attitudine del capo tribù. Mettendo a disposizione della squadra la sua indole associativa, muovendosi fluidamente per il campo per creare linee di passaggio, imprimendo la sua leadership tecnica e carismatica in modo solido e al contempo silenzioso. In questo senso il momento più appariscente del suo torneo è stato senz’altro in semifinale, quando da capitano si è preso l’incarico di tirare il primo rigore della serie contro il Messico, quello considerato più pesante, e l’ha segnato dando al Brasile il primo vantaggio. Ma la sua olimpiade è stata innanzitutto un saggio di regia sottile. Di capacità di influenzare il gioco con piccole cose e partendo da una posizione “minore”, quella del terzino destro, grazie a una creatività e una sensibilità tecnica che forse non abbiamo mai celebrato come meritavano.

Partendo da terzino destro, Dani Alves poteva accentrarsi per partecipare alla gestione del possesso insieme al regista Bruno Guimaraes, oppure rimanere più largo e attaccare la fascia destra, spingendosi anche molto in profondità, soprattutto quando l’azione si svolgeva sul lato opposto. In questo modo, ad esempio, ha propiziato il gol dell’1-0 nella finale contro la Spagna: Richarlison e Claudinho lavorano la palla sulla linea laterale sinistra, Dani Alves si butta a riempire l’area sul lato debole e sul cross seguente riesce a raggiungere il pallone, con una caparbietà che ha del miracoloso, e rimetterlo in mezzo con un campanile che Cunha converte in assist.

È un’azione che mostra bene la forma atletica incorruttibile di Dani Alves, il livello di stress fisico che ancora riesce a gestire il suo corpo: veniva da un infortunio al ginocchio e da un semestre giocato a singhiozzi, eppure a 38 anni, da calciatore più “anziano” dell’intero torneo, Alves è rimasto in campo in ogni singolo minuto dell’olimpiade del Brasile. E non limitandosi, peraltro, a un’interpretazione dei compiti esclusivamente conservativa. Quest’azione qua sotto, ad esempio, risale alla partita di debutto contro la Germania: sul punteggio di 3-0 Dani Alves si spinge molto in alto a pressare l’impostazione del terzino tedesco, intercetta il pallone, elude il ritorno dell’avversario con un dribbling secco e poi con un solo tocco in più mette una palla che aggira la difesa e trova Richarlison davanti alla porta.

La centralità di Dani Alves nel gioco del Brasile è stata del tipo sotterraneo e liquido di un calciatore universale. Un difensore che «non è solo un difensore», come scriveva Sid Lowe nel 2009. Ma nemmeno il fantasista più appariscente, l’ingranaggio più grande della manovra. Piuttosto: il manutentore, il tecnico che con sapienza e ai tempi giusti aggiunge olio al meccanismo per garantirne la fluidità.

Nelle statistiche del Brasile durante il torneo, Dani Alves si è piazzato nelle prime posizioni in tutto ciò che riguarda la creatività: secondo per passaggi totali, secondo per passaggi accurati nell’ultimo terzo di campo, secondo per dribbling riusciti, primo per passaggi chiave (2.4 ogni 90 minuti; tutti i dati sono SofaScore). Tutte statistiche che lo inquadrano come riferimento della squadra non solo in costruzione dell’azione ma anche in rifinitura. E senza trascurare nemmeno i compiti difensivi: è stato il secondo della squadra per numero di intercetti, e primo nei contrasti.

Nel 2009 Lowe descriveva così questa poliedricità: «Alves è una one-man band che porta i piatti sulle ginocchia, un tamburo sulla schiena e l’armonica di Johnny Cash legata alla bocca»; lo definiva anche «un bambino pazzo strillante, un tecnico perfetto, un genio tattico e un piccolo imbroglione subdolo. Un “Sonic the Hedgehog” calcistico». Da un certo punto di vista, il tempo sembra essersi fermato.

https://twitter.com/SofaScoreBR/status/1418204034138214409

Se guardiamo bene però una differenza c’è: rispetto a dodici anni fa Dani Alves sembra meno Sonic e più un giocatore di Age of Empires; la sua influenza sul contesto meno elettrica e più silenziosa, razionale. In questo senso l’olimpiade ha rappresentato una specie di apoteosi della versione matura di Dani Alves, che oggi si distingue non solo per una sensibilità calcistica rimasta immutata nel tempo, ma anche per la capacità di esprimerla in un modo più sottile e al tempo stesso più totalizzante di prima.

È il risultato di un processo di cerebralizzazione di un ruolo, quello del terzino, che Dani Alves in origine svolgeva in chiave massimamente atletica. Intendiamoci, la tendenza ad agire da regista “occulto”, ad assumersi cioè responsabilità creative in tutte le sue squadre, è un tratto importante della sua storia fin dal principio: è ciò che lo ha portato a inaugurare l’era del terzino-regista nel calcio contemporaneo, ad anticipare Lahm, Marcelo o Kimmich. Tuttavia, col tempo, forse anche per aggirare l’inevitabile decadimento fisico, Alves è riuscito a smussare il suo gioco, a spogliarlo dell’atletismo del terzino a tutta fascia dei tempi di Barcellona e portarlo a un nuovo livello di asciuttezza. Fino a rendere la sua regia sempre meno occulta e più evidente. Arrivando persino, in questi ultimi due anni al San Paolo, a giocare stabilmente come playmaker, al centro del campo.

Era un’evoluzione così latente in lui, che appena arrivato al club paulista nel 2019 si presenta con la maglia numero 10 (consegnatagli direttamente da Kakà durante la presentazione) e pronto fin da subito a giocare da 10: trequartista centrale del 4-2-3-1 del tecnico Cuca. Pare una soluzione sperimentale: da un lato Dani Alves sembra alla ricerca di un ruolo che possa allungargli la carriera, dall’altro permette al calciatore più dotato della rosa di concentrare nella zona nevralgica la sua visione, il gioco tra le linee, la tecnica di passaggio purissima. La sua centralità verrà accentuata ancor di più il secondo anno, quando il nuovo tecnico Fernando Diniz lo abbassa nella coppia di mediani, nel mezzo spazio di destra, e lo incarica di agire da pace-maker della squadra: di influenzare cioè ogni momento della manovra, a partire dall’uscita bassa fino al consolidamento del possesso e alla rifinitura.

Dani Alves si cala nei nuovi compiti – anzi, nelle nuove posizioni – come se si trattasse di una partitella al parco con il Super Santos. Comincia a muoversi da regista mobile, a fungere da riferimento sicuro a ogni altezza del campo, ad associarsi con i compagni sovraccaricando la zona palla. Tutto con l’apparente assenza di sforzo di un veterano: Dani Alves nel centrocampo del San Paolo riesce a dribblare, smarcarsi, resistere al pressing con il tocco sensibile e il senso dello spazio di un regista puro, non di un difensore adattato. Guardate questo dribbling “alla Garrincha” con cui si sbarazza nella propria area dell’avversario che lo pressa. Oppure quest’altro, in cui riceve con l’uomo alle spalle ma riesce a sterzare e servire un filtrante in profondità. Per non parlare della disinvoltura dei suoi sombrero distribuiti a centrocampo.

Raffinato anche questo tunnel con la punta del piede


Quasi fossero – col senno del poi – le prove generali delle Olimpiadi, durante questi due anni Dani Alves ha familiarizzato con i compiti che poi ha svolto a Tokyo. Nel San Paolo era stabilmente il giocatore che toccava più palloni e tentava più passaggi, ad esempio. Quello che, pure partecipando all’azione fin dalla primissima costruzione, resta l’uomo con più responsabilità creative sulla trequarti. Che crea occasioni per i compagni con la raffinatezza di un centrocampista d’élite.

Secondo i dati Whoscored, nel Brasileirão 2019 – quello giocato in larga parte da numero 10 – Dani Alves ha chiuso con 3.2 passaggi chiave per 90 minuti, dietro solo all’ecuadoriano Juan Cazares (3.5) e meglio pure di Arrascaeta (2.8), per citare uno dei migliori rifinitori del Sudamerica. Nel campionato 2020 invece l’abbassamento a mezzala lo ha portato molto più nel vivo della prima costruzione, e di conseguenza le occasione create sono diminuite, anche se non di molto: ha chiuso con 2.4 occasioni create ogni 90’, un dato che comunque lo ha mantenuto tra i migliori rifinitori del campionato.

Ciò che è davvero inedito, di questo ultimo Dani Alves, è la possibilità di osservarlo per la prima volta in contesti dove è lui il talento più dotato. Alle Olimpiadi, come in questi anni al San Paolo, abbiamo potuto vedere la leggerezza del suo stile elevarsi su un piedistallo; la sua sensibilità calcistica emergere in purezza, nero su bianco, senza che fosse oscurata dai fenomeni irraggiungibili che lo affiancavano in passato. È ciò che ci mancava, probabilmente, per cogliere davvero la magia del suo stile di gioco, che nel frattempo ha raggiunto la bellezza pulita e minimale delle cose migliori di questa terra.

Di Dani Alves ricordiamo i chilometri macinati sulla fascia destra del Barcellona, lo sforzo atletico per fungere da terzino e ala contemporaneamente, l’ubiquità. Chi dovesse guardarlo oggi, dopo un oblio di alcuni anni, potrebbe quindi sorprendersi nel trovare in lui un gioco fatto per lo più di cose semplici e poco vistose: piccoli movimenti a smarcarsi, pareti nello stretto, distribuzioni intelligenti e minimali che fluidificano il gioco. Non un calcio da chitarra solista, da giocoliere brasiliano diplomato in “futebol bailado”. Al contrario: un calcio poco vistoso, giocato in punta di piedi. Anche letteralmente, con una quantità fuori scala di sponde di prima e tocchi con angoli insoliti del piede destro. (Se ci pensiamo, è così che nascevano i triangoli con Messi in spazi inesistenti).

Ok, un calcio che a volte sa essere appariscente, anche


A volte sembra persino lezioso il modo in cui Dani Alves usa angoli nascosti del piede destro pur di non usare il sinistro. Sembra la versione calcistica di quel romanzo scritto apposta senza la lettera “e”.

Probabilmente è questo il singolo aspetto che meglio definisce il suo stile, la svolta minimalista degli ultimi anni di cui le Olimpiadi sono stati vetrina. Di più: il lascito testamentario. Nelle innumerevoli, piccole sponde di prima, anche nelle più insignificanti come questo tacco (o forse è una suola?) divenuto assist per caso, è contenuto per intero tutto il calcio di Dani Alves: un calcio che rivendica la primazia della triangolazione. Che si esalta nel cercare di volta in volta lo spigolo di marciapiede giusto per farci rimbalzare il pallone contro.

Qui Dani Alves è quello a sinistra


Per chi, da quando ha lasciato l’Europa, aveva perso le tracce di Dani Alves, le Olimpiadi sono state un breve riassunto degli anni perduti. Una vetrina sui suoi cambiamenti, attraverso cui mettere definitivamente a fuoco, per sottrazione, i tratti davvero salienti del suo stile. Quelli che probabilmente definiranno la sua legacy. È stato un po’ come quando rivedi una tua ex a una festa, dopo averla persa di vista, e ti basta un’occhiata veloce per accorgerti di cosa è cambiato in lei, di cosa è rimasto uguale, anche.

In questi ultimi due anni Dani Alves non ha solo rafforzato il suo status di calciatore più vincente di sempre: ha anche posto le basi per continuare a vincere ancora. Ha dimostrato una buona forma fisica a dispetto dei 38 anni, e compiuto un’evoluzione calcistica che lo rende un giocatore estremamente versatile e funzionale per entrambe le sue squadre. Il Brasile, prima di tutto, con cui gli resta da vincere soltanto il Mondiale; ma anche il San Paolo, con cui si è già tolto la soddisfazione di vincere un campionato paulista, lo scorso maggio, ma con cui ha davanti un ventaglio di successi pressoché illimitato: il campionato brasiliano, ma anche la Coppa Libertadores di cui dovrà giocare i quarti di finale nei prossimi giorni. «Penso che devi puntare alle stelle. Penso che sarebbe fantastico, storico, poter raggiungere 50 titoli prima di ritirarmi», ha detto Alves. «E spero che questa cifra possa includere la Coppa del Mondo».

Sarebbe davvero un traguardo storico per un giocatore pazzo che ha detto di vivere per il calcio, ma anche per la musica. «Anzi la musica viene anche prima».