Robin Friday, splendori e miserie del più grande calciatore che non hai mai visto - Zona Cesarini

Robin Friday, splendori e miserie del più grande calciatore che non hai mai visto

1968. Vengono assassinati Robert Kennedy e Martin Luther King rispettivamente a Los Angeles e a Memphis, escono il White Album dei Beatles ed Electric Ladyland di Jimi Hendrix, l’Italia è sconvolta dalle agitazioni studentesche universitarie e Andy Warhol inserisce nel programma di una sua esposizione al Moderna Museet di Stoccolma la frase “In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes”, probabilmente una delle citazioni più premonitrici nella storia delle citazioni premonitrici.

Oggi, circa quarant’anni dopo, raggiungere quei famigerati quindici minuti di fama non è poi così impossibile. Anzi, con l’avvento dei social, sono molti i modi per provare ad uscire dall’anonimato. Gli Sugar Ray, gruppo pop-rock californinano, intitolarono il loro terzo album 14:59, un riferimento al fatto che i loro quindici minuti di gloria non fossero ancora finiti e che l’orologio del successo segnasse ancora le 14:59. Eppure, ci fu un calciatore che fece di tutto per sfuggire a quei 15 minuti di celebrità.

“The greatest footballer you never saw.”

Il più grande calciatore che non vedrete mai.
S’intitola così il libro scritto dall’ex bassista degli Oasis Paul McGuigan e da Paolo Hewitt ed il più grande calciatore che non vedrete mai si chiama, o meglio si chiamava, Robin Friday.

La sua storia è un qualcosa di impensabile. Nacque ad Acton, un quartiere problematico nella periferia ad ovest di Londra dimostrando subito di avere un grandissimo talento quando da bambino riusciva a palleggiare con qualsiasi cosa, dalla gomma per cancellare alle arance. Entrò nelle giovanili del Crystal Palace, poi in quelle del QPR e infine in quelle nel Chelsea, ma era fuori dal campo che riusciva a dare il “meglio” di sé: furti, spaccio, scippi, perdendo il conto di quante volte fece il tragitto casa-prigione e viceversa.

La scuola non era il suo forte e decise di abbandonare gli studi trovando lavoro come stuccatore, ma anche sul lavoro mostrò il lato più accentuato del suo carattere, che sarà poi il filo conduttore di tutta la sua vita: non accetta che gli venga detto che cosa deve fare.

Cominciò a provare le prime droghe instaurando subito uno splendido rapporto con esse. A 16 anni venne arrestato mentre stava rubando un’autoradio beccandosi un anno di riformatorio. Stranamente, anzi no, il riformatorio lo tranquillizzò. Robin riuscì ad entrare nelle grazie del Direttore ed ottenne il permesso di potersi allenare con le giovanili del Reading per tre pomeriggi alla settimana e poi rientrare in cella a dormire.

Nei suoi allenamenti dimostrò di essere un calciatore di un’altra categoria: finte, dribbling, tunnel, gol (tantissimi) e assist nonostante sia, e lo resterà, un individualista. La sua idea di calcio era paragonabile allo schema che vorrebbe usare Pelè in Fuga Per La Vittoria perché non riesce a fidarsi dei compagni che derideva di continuo, rimarcando di essere il più forte di tutti.

Scontata la pena, tornò ad Acton ed allacciò subito due rapporti: il primo fu un ritorno di fiamma con la droga che da ora in poi chiamerò La Signora e il secondo fu con una giovane ragazza di colore di nome Maxine. Robin se ne innamorò e, dopo averla messa incinta, i due si sposarono fregandosene dei pregiudizi razziali del tempo. Il piccolissimo dettaglio era che Robin aveva 17 anni ed era disoccupato.

Ma come sempre, niente e nessuno poteva impedirgli di andare avanti per la sua strada che per la prima volta sembrò quella buona dato che il Walthamston Avenue, squadra semiprofessionista, gli offrì un contratto dopo avergli fatto sostenere un provino. I soldi erano pochi, 10 sterline alla settimana, ma insieme ad un lavoro come asfaltatore riuscì ad andare avanti e a mantenere la moglie ed il figlio.

Nel Walthamston, Robin iniziò ad incantare gli spettatori del Green Pond Road con numeri e giocate incredibili. A differenza dell’anno in riformatorio però, né il calcio né la famiglia furono sufficienti per rilassarlo. La Signora continuava ad allietare le sue giornate insieme ad un numero imprecisato di “paperine” e di bevande alcoliche scolate come fossero bottiglie di acqua minerale. I suoi peccati erano noti e Robin non faceva niente per nasconderli, eppure in campo continuava a regalare magie e a segnare valanghe di gol.

Nel 1971 l’Hayes, dopo averci giocato contro ed averlo visto segnare due reti, decise di ingaggiarlo offrendogli un contratto di 30 sterline a settimana. Il triplo rispetto a quello che guadagnava nel Walthamston. Nell’Hayes, Robin fece un doppio salto: uno, drammatico, per poco gli costò la vita: ubriaco e alienato dal mondo a causa della Signora salì su un tetto e, inciampando, franò al suolo. Un tuffo di cinque metri abbondanti colpendo in pieno un palo che gli perforò una chiappa e per poco non gli trapassò i polmoni.

L’altro fu un episodio entrato poi nel mito: al rientro, dopo quattro mesi di convalescenza, l’allenatore dell’Hayes decise di schierarlo subito in campo da titolare contro il Dagenham&Redbridge ma al momento dell’ingresso in campo delle due squadre Robin non c’era.

“What the fuck! Where is Robin?”

Era andato al pub accanto allo stadio dove fu trovato a bere e a parlare con un posacenere.
Con la forza riuscirono ad alzarlo dalla sedia e lo gettarono nella mischia nonostante non si reggesse in piedi. Nel vederlo vagare per il campo come uno zombie, i giocatori del Dag&Red iniziarono ad insultarlo dicendogli di tutto. I suoi compagni di squadra invece lo ignoravano. Robin se ne stette a pascolare per il campo fino all’80° quando dalle sue parti arrivò il pallone scagliato per caso da uno dei suoi. Di colpo rinsavì e lo calciò al volo dal limite dell’area. Gol. 1-0 Hayes.

Al triplice fischio, chiunque fosse presente al Church Road perse la testa. Gli avversari erano increduli, i suoi tifosi iniziarono a osannare il suo nome, i suoi compagni di squadra gli corsero incontro per abbracciarlo. Robin però scartò anche loro, uno ad uno, e si presentò davanti al suo allenatore: “La prossima volta vedi di non rompermi i coglioni!”. Nel magico mondo di Robin Friday non poteva esserci risposta migliore di quella.

Continuò la sua stagione tra alti calcistici e bassi extracalcistici fino a quando, in un turno di FA Cup, l’Hayes si trovò ad affrontare un club professionistico: il Reading, all’epoca in Fourth Division. La squadra che aveva permesso a Robin di allenarsi durante l’anno di riformatorio. L’andata finì 0-0. Il replay vide vincere i biancoblu londinesi per 1-0.

Nonostante la vittoria, Charlie Hurley, manager dei Royals, rimase impressionato dall’abilità di quel centravanti capellone dalle folte basette ed iniziò a osservarlo, sia personalmente sia mandando qualche fidato collaboratore. In molti gli consigliarono di lasciar perdere dato stile di vita piuttosto sregolato del nostro eroe, ma alla fine Robin fu ingaggiato ufficialmente dal Reading nel 1974.

Firmò un contratto da semiprofessionista, continuando a lavorare. L’ impatto con la nuova realtà non fu dei migliori. Il primo giorno Robin chiese ad un dirigente quale fosse la zona del quartiere per trovare la roba migliore. Durante gli allenamenti raramente toglieva la gamba nei contrasti. Hurley decise di farlo allenare a parte e fu inserito nella squadra riserve per i primi quattro mesi. A gennaio il Reading stava attraversando un momentaccio. Nelle ultime quattordici partite aveva vinto soltanto due volte. Charlie Hurley non sapendo più cosa inventarsi decise di promuovere Robin in prima squadra che intanto nel campionato riserve, stava spaccando le reti di ogni squadra avversaria che affrontava.

Con lui in campo la stagione dei Royals svoltò. In campo Robin regalava perle assolute e gol da fantascienza, diventando con il passare dei minuti sul terreno di gioco l’idolo indiscusso dei tifosi. Iniziarono a chiamarlo il sesto Beatle e i paragoni con George Best erano sempre più frequenti. Può sembrare un’eresia, ma Robin sembrava addirittura migliore dell’immenso Georgie. Il Reading aveva in casa un autentico fenomeno, ma più che provavano a tutelare e a proteggere il loro fuoriclasse e più che Robin diventava ingestibile. Ricordate cosa ho scritto all’inizio: non accettava che nessuno potesse dirgli cosa dovesse fare.

Fu bandito dalla maggior parte dei pub del Berkshire. Per non parlare della musica heavy metal che usciva da casa sua in piena notte. Una volta si presentò in un locale ubriaco fradicio, si sistemò nel mezzo alla pista da ballo ed iniziò a ballare. Quella stessa sera inventò The Elephant: girò in fuori le tasche dell’impermeabile, tirò fuori il pisello e se avete un minimo di fantasia riuscirete a vedere la testa di un elefante.

Al ritorno da una trasferta Robin fece fermare il bus perché aveva un urgente bisogno di fare pipì e mentre cambiava l’acqua al pesce si accorse di essere vicino ad un cimitero. Rubò delle decorazioni ad una tomba e le sistemò intorno al suo presidente che stava dormendo. Sempre durante una trasferta, si presentò nella hall dell’albergo dove soggiornava la squadra con un cigno al guinzaglio.

Nonostante tutto, il Reading arrivò sesto e Robin fu confermato per la stagione successiva. Sheffield United e Arsenal chiesero delle informazioni su di lui senza però presentare un’offerta concreta, probabilmente sconvolti nel conoscere la vita extracalcistica di Robin.

La stagione ’74/’75 lo vide andare a segno per ben 18 volte vincendo il premio di giocatore dell’anno, ma fu la stagione successiva che lo consacrò definitivamente. 22 gol tra cui uno splendido realizzato in rovesciata senza guardare la porta. A fine partita l’arbitro si complimentò dicendogli che era il gol più bello che avesse mai visto.

“Ah sì – rispose Robin – dovresti venire a vedermi più spesso”. Gli arbitri non gli piacevano e ovviamente faceva di tutto per farsi odiare. Durante una partita vide uno spettatore che stava bevendo del whisky. Gli venne naturale chiedergli un sorso, raggiungendolo in curva. Fu ammonito, ma Robin provò a giustificarsi a modo suo. “Era solo per sciacquarmi la bocca prima di andare al pub”. Cartellino rosso.

Grazie alle sue magie, il Reading fu promosso in 3rd Division. Robin festeggiò la promozione baciando un poliziotto.

“Era l’unico serio in tutto lo stadio. Però mi sono pentito subito di averlo baciato. Io odio i poliziotti!”.

I problemi con i Royals arrivarono quando la dirigenza decise di decurtare parte degli stipendi dei propri giocatori. Robin, come gli altri compagni, disse di no e chiese di essere ceduto. Nel mentre, si sposò per la seconda volta. Il matrimonio fu uno scenario apocalittico: prima della cerimonia fu beccato con abito marrone di velluto, maglietta tigrata e stivali di pitone, fuori dalla chiesa a rollarsi una canna. Il rinfresco finì in rissa con gli invitati che, totalmente ubriachi, prima spaccarono tutto e poi, prima di andarsene, rubarono parte dei regali di nozze tra cui svariati chili di marijuana.

Si presentò in ritiro in condizioni penose. Iniziò a non presentarsi agli allenamenti cosa che fece imbestialire tutta la rosa e anche in campionato sembrava sempre più assente. Una volta chiese al pubblico il risultato della partita che stava giocando. Contro il Mansfield dopo essere stato sostituito entrò nello spogliatoio avversario, si abbassò i pantaloncini e cagò nel mezzo della stanza.

Cardiff, bloody Cardiff

Charlie Hurley, l’unico che lo aveva sempre difeso e per cui Robin nutrì un contorto rispetto, finì per arrendersi e decise di metterlo sul mercato. L’unica offerta che arrivò in sede fu quella del Cardiff City, squadra di 2nd Division, che era convinta di rimettere il ragazzo sulla retta via. Robin non voleva andarsene in Galles, troppo lontano dalla sua Acton e dalle sue radici, ma non ebbe altra scelta anche perché i Bluebirds spesero ben 28 mila sterline.

Appena arrivato in Galles, ebbe la brillante idea di farsi arrestare perché fu beccato in treno senza biglietto. Quella dei viaggi gratis fu una costante della sua permanenza gallese. Ogni giorno andava agli allenamenti in treno fingendosi il controllore chiedendo ai passeggeri di fargli vedere il biglietto obliterato finendo per intascarsene due, uno per l’andata e uno per il ritorno.

Il suo esordio avvenne contro il Fulham. La sera prima Robin si era preparato al match bevendosi molte pinte di birra. La solita routine. Nei Cottagers giocava da due anni Bobby Moore, il football per eccellenza, l’immortale capitano dell’Inghilterra al Mondiale ’66. Fu così felice di affrontarlo che prima segnò una doppietta e poi, diciamo come dichiarazione d’affetto, gli strizzò i testicoli che circa 10 anni prima erano riusciti a sconfiggere un nemico ben più ostico del nostro capellone. C’erano tutti i presupposti per una grande stagione, ma raramente riuscì a ripetere la partita col Fulham.

Alternava buone partite a momenti di latitanza. In più iniziarono i soliti problemi: iniziò a saltare diversi allenamenti, ad ogni partita riusciva sempre a scatenare almeno un paio di risse con gli avversari e a volte anche con i compagni, venne trovato nudo e svenuto negli hotel dove la squadra andava in ritiro e più volte ed era diventato il miglior cliente di svariati pub gallesi. A Cardiff non ci voleva proprio stare. Casa sua gli mancava troppo.

Inoltre ebbe un rapporto burrascoso con il manager Jimmy Andrews che, come disse ad Hurley durante la trattativa per il suo acquisto, aveva come unico scopo quello di rimettere Robin sulla retta via. Arrivò perfino a supplicare Charlie Hurley per poter tornare a giocare con il Reading, ma i Royals, che avrebbero fatto carte false per riprenderselo, non avevano il denaro sufficiente per ricomprarlo.

Il momento che consegnò Robin Friday alla leggenda fu il 16 aprile 1977. Il Cardiff in piena zona retrocessione affrontava in casa il Luton Town che viceversa era nelle zone alte della classifica. Robin, in una delle sue classiche giornate no, fu lanciato in profondità da un compagno e si scontrò fortuitamente contro il portiere avversario Milija Aleksic. Robin allungò la mano per chiedere scusa, ma Aleksic rifiutò la stretta e fece ripartire il gioco.

Robin la mise sul personale. Di solito gli bastava molto meno. Rincorse il difensore e riconquistò il pallone, ne saltò un altro e si ritrovò a tu per tu col portiere. Dribbling secco, Aleksic col culo per terra e gol a porta vuota. Nel festeggiare, Robin mostrò allo sconsolato Aleksic le due dita a V, simbolo nei paesi anglosassoni di una parola che inizia appunto con la v e finisce con affanculo.

Quel momento fu immortalato dai fotografi e la foto fece il giro del mondo. Diventò addirittura la copertina di un singolo dei Super Furry Animals, gruppo rock gallese, intitolato The Man Don’t Give a Fuck. Non serve un traduttore per capirne il significato.

Il Cardiff si salvò, e la stagione successiva iniziò nel peggiore dei modi per il nostro Robin che si ammalò di un misteriosissimo virus. Perse una quindicina di chili e restò lontano dal campo per i primi tre mesi. La partita del rientro fu una trasferta a Brighton. Nonostante la prolungata inattività, Robin riprese subito le vecchie abitudini scontrandosi più volte con il difensore Mark Lawrenson, stopper alla vecchia maniera che non toglieva mai la gamba nei contrasti con entrate al limite del codice penale. Dopo essere stato malmenato per tutta la partita, Robin, frustrato ed incazzato, approfittò dell’ennesima scivolata assassina di Lawrenson per colpirlo con un calcio in bocca. Cartellino rosso.

Uscì dal campo, ma invece che rientrare nel proprio spogliatoio ebbe un déja-vu: si diresse verso quello del Brighton e proprio come fece contro il Mansfield si abbassò i pantaloncini e cagò. Questa volta però dentro la borsa di Lawrenson. Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Andrews capì che il ragazzo era un caso senza speranza e lo mise fuori squadra concedendogli soltanto un’ultima apparizione.

A fine stagione, mentre stava divorziando dalla seconda moglie che gli aveva dato un secondo figlio, Robin Friday annunciò il proprio ritiro a soli 25 anni perché stanco di quel mondo pieno di gente che gli diceva cosa doveva fare. Come se li avessi mai ascoltati…

The short path to death

Bill Shankly disse che Robin Friday inizia dove finisce George Best. Insieme non avrebbero potuto giocare: la loro squadra sarebbe scesa in campo già in 9 uomini. A volte per una rissa, a volte per qualche donna, a volte per molto alcol. Però, non vederli insieme, è e sarà il più grosso rammarico che questa nazione si porterà dietro per sempre.

Tornò ad Acton, e ricominciò a lavorare come asfaltatore. Finalmente era felice. Poteva bere quanto voleva, drogarsi quanto voleva e andare a paperine quanto voleva. Era “padrone” della sua vita più che mai. Ma il calcio un po’ gli mancava. Sostenne un provino con il Bradford però al momento di firmare il contratto si tirò indietro e non se ne fece di nulla. Fu cercato anche dal Reading dopo una raccolta di firme da parte dei tifosi per riportarlo in squadra.

Il nuovo manager dei Royals, Maurice Evans, si presentò a casa di Robin dicendogli che con lui in panchina sarebbe entrato addirittura nel giro della nazionale. Gli domandò quanti anni avesse, Robin lo guardò di traverso e rispose: “I’m half your age but I’ve lived twice the life you have!”. Frase che si può benissimo attribuire a Keith Richards ma che detta da un calciatore fa sorridere. Robin però era entrambe le cose, calciatore e Keith Richards. Non se ne fece di nulla neppure col Reading.

Essere padrone della sua vita portò solo casini: si sposò per la terza volta e dopo tre anni divorziò ancora. Si ritrovò senza soldi, sperperati tra serate al pub ed incontri troppo ravvicinati con la Signora, andò a vivere in una casa popolare e fu arrestato perché travestito da poliziotto sequestrò a degli spacciatori un’ingente somma di droga per poterla poi consumare in privato.

A 38 anni il suo corpo fu trovato senza vita in un solitario appartamento nella sua Acton. Arresto cardiaco dovuto ad un overdose. La Signora aveva deciso di portarlo via con sé.

Questo era Robin Friday. Un calciatore diventato leggenda pur giocando soltanto per cinque stagioni, non avendo mai vinto un trofeo e non giocando neppure un minuto in First Division, conosciuta oggi come Premier League.

Un calciatore che non è diventato grande soltanto perché non ha mai voluto esserlo, rifiutando in ogni modo quei 15 minuti di celebrità. Perché la celebrità non gli interessava, tanto lui lo sapeva di essere comunque, a prescindere, the greatest footballer you never saw.