L'Uomo che non c'era. 5 Palloni d'Oro che forse non conosci - Zona Cesarini

L’Uomo che non c’era. 5 Palloni d’Oro che forse non conosci

Ora volevo parlare, ma non avevo nessuno accanto a me: ero un fantasma, non vedevo nessuno. E nessuno vedeva me. Era così da sempre.” (Billy Bob Thornton)

La citazione stavolta è cinematografica. Un estratto del monologo del barbiere Billy Bob Thornton nel noir capolavoro dei fratelli Coen: L’uomo che non c’era. Una presenza spettrale, che aleggia sulla storia come un fantasma in cerca di un senso da dare alla propria esistenza e che appare invisibile agli occhi altrui. C’è qualcosa di metafisico ed inspiegabile nella sua stessa esistenza, tantoché si arriva quasi a dubitarne. Una sensazione che a volte ci accompagna anche in tutt’altro ambito, quello del Pallone d’Oro.

Il riconoscimento individuale nel mondo del calcio; quello che resterà ad eterna memoria con il suo albo colmo di nomi leggendari: dal pioniere Sir Stanley Matthews fino a Messi (anche se oggi si fa riferimento al FIFA World Player). Nomi consegnati alla storia del gioco. Ma, scrutando con attenzione quella lista che va dal 1956 al 2009, ci imbattiamo anche in alcuni outsider che forse in pochi conoscono.

Figure criptiche, giocatori baciati dall’annata irripetibile, meteore dimenticate o semplicemente uomini al posto giusto nel momento giusto. Ne abbiamo selezionati 5 che rispondono a queste caratteristiche.

Floriàn Albert (1967)

Pallone d’oro del 1967 è l’ungherese Floriàn Albert. Che agli appassionati italiani suonerà quasi come un Carneade. Invece il centravanti magiaro è stato una bandiera di un club glorioso e nobile come il Ferencvaros. Ha speso tutta la carriera a Budapest, indossando esclusivamente quella maglia verde e bianca a strisce verticali. Un dato su tutti svetta all’attenzione. Come a dire la statistica non mente, soprattutto quando si parla di attaccanti: 350 presenze, 258 gol.

Ma l’affermazione europea avviene immediatamente dopo il Mondiale del ’66. È qui che il centravanti ungherese gioca la partita della vita contro il Brasile di Garrincha e Tostao, propiziando le tre reti con cui i magiari schiantano i campioni del mondo in carica.

Pur non segnando, sforna una prestazione che rimane negli occhi di France Football e degli addetti ai lavori. È doveroso aggiungere che Albert aveva già dato sfoggio delle sue abilità nel Mondiale in Cile, arrivando a toccare quota 4 reti: miglior cannoniere della competizione. In Ungheria rimane una vera leggenda, tanto che nel 2007 il Ferencvaros decide di intitolare il vecchio e glorioso FTC Stadion in suo onore.

Allan Simonsen (1977)

1977, l’anno della scintilla punk che infiamma Londra come New York e Berlino. Un periodo di violenti cambiamenti e rabbia diffusa, un’epoca in cui gli outsider e i reietti di tutto il mondo fanno sentire le loro voci. Nel Borussia Moenchengladbach gioca un piccolo attaccante danese che fa impazzire le difese e le marcature a uomo dei terzini.

Si chiama Allan Simonsen, è un folletto dai riccioli biondi di 166 centimetri che in pochi riescono a neutralizzare. Il 1977 è decisamente il suo anno: vince il titolo di capocannoniere della Bundesliga con 13 centri, alza uno storico Meisterschale e infine trascina in finale di Coppa dei Campioni il ‘Gladbach. Dove segna un gol magnifico, che però non serve alla squadra di Udo Lattek, che cede per 3-1 al Liverpool di Keegan.

È l’uomo giusto al momento giusto. La migliore annata personale di Simonsen corrisponde all’assegnazione del Pallone d’oro, in buona parte conquistato grazie a quella prodezza balistica mancina trasmessa via etere in tutta Europa. Insomma, un ragazzo di talento e parzialmente fuori dagli schemi che irrompe prepotentemente nel gotha internazionale del calcio.

Passerà poi al Barcellona con discreti risultati, per chiudere la carriera nella sua città natia: la piccola e periferica Vejle. È l’unico danese ad aver vinto il Pallone d’oro; impresa soltanto sfiorata dal connazionale Preben Elkjaer Larsen, emblema dell’Hellas Verona campione d’Italia.

Oleh Blochin (1975)

Sicuramente il nome più consistente di questa cinquina: Oleh Blochin, Pallone d’oro del 1975. Calciatore di grande profilo, vero collettore del laboratorio del Colonnello Lobanovski in quel di Kiev. Blochin è uno di quei giocatori baciati dal talento naturale e forgiati da una scuola atletica e sportiva di primissimo livello. Mancino raffinato, rapidissimo, punta dal fisico resistente e prestante. Un vero campione.

Fuoriclasse che, in un mondo indiscutibilmente diviso dal paradigma tra Est ed Ovest, ha lasciato un segno indelebile nei ricordi dei tifosi sovietici. Scontando una lontananza fisica ed ideologica dall’occidente e dal suo calcio: icona del CCCP e della lunga stagione brezneviana.

Leggere il nome di Oleh Blochin significa tradurre il concetto con Dinamo Kiev e Valerij Lobanovski, mente e ingegno dietro a quel meccanismo perfetto fatto di slanci tattici futuristi e fisicità estrema. Se il Colonnello è il deus ex-machina di una rivoluzionaria scuola sovietica, Blochin è il suo profeta in tacchetti.

Il 1975 coincide col suo momento di celebrità a livello internazionale: disintegra il Bayern Monaco campione d’Europa di Rummenigge e Meier nelle due finali di Supercoppa Europea. 0-1 all’Olympiastadion con un gol da pantheon del gioco e doppietta al ritorno in terra ucraina.

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Stavolta un premio sacrosanto. Forse l’amara verità su questo sottovalutato Pallone d’oro è che siamo stati sfortunati a non poter ammirare pienamente le sue giocate e i suoi gol diabolici, spesso relegandolo mediaticamente al ristrettissimo ed autoassolutorio ruolo di “outsider sovietico”.

Ihor Bjelanov (1986)

Ancora la Dinamo Kiev, e ancora una volta c’è di mezzo il Colonnello Lobanovski. Anche se il sorprendente Pallone d’oro del 1986 è un calciatore distante dal talento puro del predecessore Blochin. È Ihor Bjelanov, trionfatore dell’edizione tenutasi dopo il Mondiale in Messico. Ovvero il mondiale vinto da un solo giocatore, quello col numero 10 dell’Argentina. Maradona, in quanto sudamericano, per motivi normativi non può partecipare alla competizione di France Football e la scelta ricade così su Ihor.

E pensare che l’esordio della sua carriera a Kiev fu più o meno questo: “Nel 1985, al primo allenamento con la Dinamo, venni doppiato due volte da tutta la squadra dopo qualche giro di pista e se Lobanovski non mi avesse trattenuto sarei tornato ad Odessa la sera stessa”.

Non un approccio memorabile per il buon Ihor, che però di lì ad un anno si mette in luce negli oliatissimi ingranaggi del congegno lobanovskiano: al Mondiale in Messico rifila una storica quanto amara tripletta al Belgio di Pfaff, cedendo la qualificazione alle semifinali dopo un pirotecnico 4-3.

L’URSS è una squadra che pur non vincendo niente scrive la storia, quella dell’innovazione del gioco e dello spettacolo applicato al calcio. Bjelanov si ritaglia la parte del protagonista, sfrutta come nessuno lo zeitgeist e il suo nome circola. Al punto che la giuria del Pallone d’oro decide di premiarlo, staccando di pochi voti personalità del calibro di Butragueno e Lineker.

La sua parabola di meteora internazionale conoscerà pure un lungo crepuscolo con una data precisa: 25 giugno 1988. URSS – Olanda, finale dell’Europeo. Il Muro scricchiola, ma l’URSS del Colonnello è a un passo dalla storia. E proprio Bjelanov sbaglia il rigore che avrebbe potuto riaprire i giochi. Un errore che sa di premonizione: da quel momento in poi la carriera di Bjelanov sarà un continuo declino, fra Germania e nostalgici ritorni in Ucraina.

Matthias Sammer (1996)

Forse la decisione più controversa e discutibile degli ultimi 20 anni. Come da copione, e mai come in questo caso, le competizioni internazionali rivestono un ruolo determinante nell’assegnazione dell’ambito premio. Matthias Sammer vince il Pallone d’oro del 1996 dopo la vittoria della Germania nell’Europeo in Inghilterra.

È un riconoscimento quasi surreale, pensando che dietro il difensore centrale tedesco arrivano Ronaldo e Alan Shearer. Soprattutto perché Sammer di mestiere fa il libero ed è con quel particolare ruolo demodé che ha costruito una lunga carriera nella DDR prima e nella Germania riunificata poi.

Un difensore centrale vecchio stampo, colonna portante di quel Borussia Dortmund che l’anno seguente trionferà sul tetto d’Europa contro la Juventus di Del Piero e Lippi. Ma Sammer riesce ad imporsi nella speciale classifica di France Football grazie ad un Europeo giocato da assoluto protagonista, infilando pure due gol oltre ad una serie di prestazioni di alto livello in tutto l’arco della competizione. Un trascinatore.

Certo che il premio destinato al miglior talento del mondo finisca nelle mani di quel libero tedesco di Dresda pare quasi un affronto; soprattutto se pensiamo a leggende come Maldini e Baresi che mai potranno fregiarsi di tale riconoscimento, dopo anni di dominio assoluto passati ad insegnare calcio in giro per l’Europa. Ma il destino a volte è beffardo. La giuria di France Football lo è decisamente di più.