Andrey Arshavin: fenomenologia di uno Zar - Zona Cesarini
Arshavin
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Andrey Arshavin: fenomenologia di uno Zar

“Mi innamorai del calcio come mi sarei innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente…”.

Così inizia Febbre a 90°, capolavoro di Nick Hornby che narra dell’incommensurabile passione che travolse il protagonista quando conobbe il calcio e l’Arsenal. Durante la mia breve vita mi sono innamorato di tantissimi calciatori, ma mai nessun amore era paragonabile a quello che Hornby descrive nelle prime righe del suo romanzo. L’unica eccezione nasce a San Pietroburgo nel 1981 e, dagli Europei del 2008, conquista un alloggio piuttosto spazioso nel mio cuore. Il suo nome è Andrey Sergeyevich Arshavin ed alcuni lo considerano il più grande calciatore russo di tutti i tempi.

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In verità la città si chiamava ancora Leningrado al tempo, e i genitori di Andrey non è che se la passassero così bene. La storia del pargolo rischia di chiudersi anzitempo, quando da bambino scappa dalla presa di mamma Tatiana e fugge in strada. “Non ho visto la macchina che mi ha colpito. Sono volato dieci metri indietro, è un miracolo che io sia vivo”. All’età di dodici anni è costretto ad assistere alla rottura tra Tatiana e Sergey, finisce a vivere nello sgangherato appartamento della madre e vede il padre soltanto nel week-end.

Sergey fu un calciatore amatoriale e un pessimo allenatore, ma prima del divorzio riuscì ad instradare il figlio verso una carriera a lui preclusa da un talento pressoché assente. Convince lo staff tecnico della Smena Academy, l’accademia dello Zenit, a visionare il bambino. E in effetti due cose le sapeva fare. Lo Zenit Leningrado si trovava in una situazione finanziaria molto diversa rispetto a quella attuale. Gazprom era appena stata fondata e lavorava sotto il diretto controllo statale, il calcio era controllato dai club moscoviti e dopo la caduta dell’URSS lo Zenit (diventato di San Pietroburgo) venne relegato in seconda divisione.

È normale che in queste situazioni, non potendo permettersi investimenti importanti sul mercato, l’attenzione si riversi sul settore giovanile, affinché possa generare plusvalenze o materiale umano utile alla prima squadra. La Smena è attualmente la più importante fucina di talenti russi ed è gestita da Henk Van Stee. Da lì sono usciti Radimov (che attualmente allena lo Zenit-2), Salenko, Malafeev, Denisov, Bystrov, e ovviamente Arshavin. Debutta con la prima squadra nel 2000, in panchina Yuri Morozov, considerato in patria uno dei migliori allenatori quando si tratta di lanciare i giovani. Su quest’uomo si potrebbe aprire un capitolo a parte: ha vissuto la sua esistenza onorando Leningrado/San Pietroburgo e cercando di fare il meglio per la sua città. È morto nel 2005, giusto in tempo per eclissarsi prima che la pioggia di rubli elargiti dalla Gazprom inquinasse, almeno in parte, il romanticismo di quei posti.

La squadra intanto annovera giocatori niente male, ma sotto la guida del ceco Petržela, il potenziale di parecchi rimane sommerso. Che uno, però, fosse diverso dagli altri si capisce subito. A 24 anni Arshavin ha un controllo di palla eccelso, vede la porta e quando la sfera passa dalle sue parti le cose accadono. Nel 2007 arriva Dick Advocaat, un professore accademico del 4-3-3 che ama imporre il proprio gioco indipendentemente da chi c’è dall’altra parte. Insieme a lui arrivano altri elementi importanti come Lombaerts, Tymoschuk, Zyrianov, Pogrebnyak e Dominguez. La capacità di usare entrambi i piedi con naturalezza permette ad Arshavin di tornare utile sia a destra che a sinistra, diventando quindi un’arma tattica difficile da leggere. È un testa a testa serratissimo contro lo Spartak Mosca di Pavlyuchenko, all’ultima giornata basta uno 0-1 striminzito in casa del Saturn per laurearsi campioni di Russia. “Shava” chiude con 10 gol ma il bello deve ancora venire.

Advocaat lo ha già capito, e quando due squadre di livello come Tottenham e Rangers bussano alla porta dello Zenit, il tecnico olandese non li fa nemmeno iniziare a parlare. Sa benissimo che Andrey è un giocatore che non passa così spesso e quando se ne andrà da San Pietroburgo lo farà per una big europea. Ha ragione lui. Il 2008 è l’anno della sua consacrazione.

Inizialmente non sembra essere così. Arshavin fornisce il solito contributo in termini realizzativi e di occasioni create, ma la squadra lascia troppi punti per strada, cosa che invece CSKA e Dinamo non fanno così come il Rubin di Berdyev che alla fine taglierà il traguardo prima di tutti. Anche in Coppa Uefa l’avventura sembra concludersi anzitempo, quando il passaggio del turno come terza nel girone pone i russi di fronte al Villareal di Cazorla e Giuseppe Rossi. Sia contro gli spagnoli, sia agli ottavi contro il Marsiglia, due grandi prove tra le mura amiche del Petroskyi consentono il passaggio del turno.

Ai quarti c’è il Bayer Leverkusen, ma all’andata Arshavin fa letteralmente quello che vuole. La bravura di Advocaat sta nell’aver capito che tra le mani non ha un giocatore da modellare: lo può soltanto scatenare. Nella formazione il nome di Arshavin appare largo a sinistra nel tridente, ma dopo è un continuo movimento alla ricerca dello spazio attaccabile. 1-4 equivale a semifinale assicurata, e qui la favola finisce perché c’è il Bayern Monaco. È vero che i bavaresi stavano attraversando un periodo di transizione e con Hitzfield la proposta di gioco non era delle più chiare, poi, però, prenderne quattro a San Pietroburgo è qualcosa che non capita così spesso. Per di più quella partita Arshavin non l’ha neppure giocata perché si era fatto ammonire all’andata (0-0 all’Allianz). D’altronde Arshavin è anche questo; un ribelle, allergico alle regole in campo come fuori.

“Anche nel suo “prime” è sempre stato considerato un giocatore pigro. Non correva particolarmente, stava fuori dalla partita per 60 o 70 minuti. Poi toccava il pallone e accadeva qualcosa di straordinario”.

Le parole sono di Artur Petrosyan, la penna sportiva più eminente in Russia. Arshavin non è mai stato l’emblema della continuità, avrebbe potuto fare sicuramente di più, ma Petrosyan racconta che il problema della maggior parte dei calciatori russi risiede nella mancanza di ambizioni. Appena raggiungono un obiettivo si siedono sugli allori, lasciano che il corso degli eventi li travolga. Difatti nessun elemento di quella Russia che rapì l’attenzione agli Europei riuscì a confermarsi in giro per il continente. Ma ci arriveremo. Intanto la finale di Coppa Uefa è contro i Glasgow Rangers e in quella partita Arshavin gioca il suo miglior calcio, fornendo l’assist per il gol di Denisov e aprendo ogni volta la difesa degli scozzesi con le sue giocate. Finisce 2-0 per i russi, primo e finora ultimo successo in campo internazionale per la squadra di San Pietroburgo.

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Il 2008 però non è finito. In estate ci sono gli Europei, e la Russia si è qualificata per una serie di eventi che hanno portato l’Inghilterra a perdere 2-3 in casa contro la Croazia già qualificata. Come se non bastasse, la squadra rischia di uscire subito, dal momento che il loro miglior giocatore ha tirato una gomitata ad un avversario nella partita di qualificazione contro Andorra costatagli espulsione e due giornate di squalifica. Guus Hiddink non ha nemmeno il dubbio, Arshavin viene ed è anche il capitano. La Russia è ai suoi piedi: sente chiaramente una fiducia e una responsabilità che lo porteranno a giocare due settimane da top 5 al mondo. La partita decisiva per il passaggio del turno, contro la Svezia di Ibra, è un’epifania per chi non si era ancora accorto di questo fuoriclasse. I quarti di finale contro l’Olanda sono la consacrazione di una mente che applicata al calcio fa delle cose accessibili a pochi. Soltanto la Spagna campione di tutto riuscirà ad imporsi in semifinale.

Quella Russia era una squadra di tutto rispetto; al blocco dello Zenit si aggiungeva quello del CSKA più la vena realizzativa di un Pavlyuchenko che in Inghilterra non vedranno (quasi) mai. Il tutto coordinato da mister impopolarità Guus Hiddink, il quale una telefonatina al suo connazionale Advocaat la deve aver fatta, giusto per capire se quello con il 10 è veramente uno diverso dagli altri. Advocaat lo pensava, Hiddink se ne convince e Wenger se ne innamora. L’Arsenal avrebbe bisogno di un centrale dopo la cessione di Kolo Touré e ovviamente va a spendere 15 milioni (all’epoca il trasferimento più esoso nella storia del club) per Arshavin. Capite adesso il disturbo del povero Hornby. A dire la verità anche il Barcellona si era fatto avanti dopo l’Europeo, ma il campionato russo sarebbe finito a Dicembre e prima della finestra di Gennaio Andrey non si sarebbe mosso. Nel Gennaio del 2009 Arshavin è un idolo delle folle, in Russia non c’è un singolo cittadino che non conosca il suo nome e anche a Londra gli inizi sono più che promettenti. 6 gol e 8 assist in dodici apparizioni, ad Anfield pareggia da solo contro il Liverpool. E non è una metafora.

Onnipotenza.

Con quel dito sulla bocca sempre a cercare la polemica, a zittire chi lo critica per certi suoi atteggiamenti in allenamento o durante il match. E anche per questo il cuore palpita quando lo vedo con la palla tra i piedi. Lui è così: o scegliete di ascoltare la melodia del suo calcio o non guardatelo perché tanto non cambierà. Un po’ come Cassano, ma senza la componente di entertainment guascone che porta in dote il barese. Andrey sta bene con se stesso e non ha bisogno delle opinioni altrui. È un atteggiamento sbagliato? Certo, ma poi parte in dribbling e di colpo tutto scompare, tranne un talento che in Russia non dimenticheranno facilmente. Anche a Londra il suo ricordo sarà difficile da cancellare, perché, se pure più le stagioni passavano e più il suo contributo nel corso della stagione era difettoso, quando era in serata non c’era nessuno in grado di tenerlo. La fase di non possesso non è mai stata digerita granché da Arshavin, e con il pressing che esercita Wenger si nota sempre più spesso questa lacuna del russo.

Progressivamente il tecnico francese comincia ad utilizzarlo meno, fino ad arrivare al 2012 quando gli europei in Polonia e Ucraina sembrano il palcoscenico adatto per tornare a silenziare tutti i detrattori. Con Advocaat in panchina la Russia arriva all’ultima partita contro la Grecia con due risultati su tre a disposizione per passare il turno. Un gol di Karagounis rompe definitivamente l’incantesimo. All’aeroporto di Mosca un pubblico inferocito chiede spiegazioni e Arshavin perde la testa: “Se non rispettiamo le aspettative è un vostro problema!”. La gente che quattro anni prima lo osannava adesso lo detesta, viene considerato una bandiera caduta, un eroe perso ed inaffidabile.

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In molti fanno coincidere quell’episodio con la fine della carriera di Arshavin. Dopo quell’Europeo si concede sempre meno alla stampa, litiga con i compagni, divorzia con la moglie Yulia, cade in una depressione che il grigio plumbeo londinese può soltanto acuire. La sua avventura all’Arsenal finisce ufficialmente il 27 Giugno 2013, quando lo Zenit, con una mossa alla Galliani, riporta il figliol prodigo all’ovile. La tifoseria è spaccata: c’è chi acclama il suo ritorno, e chi non lo reputa più degno di indossare quella maglia dopo i fatti dell’anno passato.

Lui, superati i trenta vorrebbe soltanto giocare nella sua città, ma la verità è che la Gazprom ha visto un ritorno economico in questa operazione legato più al merchandising che alla componente sportiva. Con Spalletti riesce anche a fare qualche bella prestazione, anche perché è tornato a giocare con i suoi vecchi amici della nazionale e questo lo fa sentire bene. La stagione successiva, però, arriva Villas Boas e l’epurazione procede: salutano Denisov, Bukharov, Shirokov, Bystrov, Zyrianov. Andrey ha ancora un anno di contratto ma con il tecnico portoghese non scatta la scintilla. Quando è così, lui lascia perdere: inventa scuse per saltare gli allenamenti, ha la verve di uno zombie romeriano in campo e a dirla tutta prende anche qualche chilo. Lo Zenit non gli rinnova il contratto ma, nonostante il suo contributo non sia stato così determinante, la squadra vince il titolo e la curva pietroburghese si lascia andare ad un ultimo omaggio a due leggende del club come Kerzakhov e Arshavin.

“I ragazzi dal nostro cortile”, vuol dire più o meno questo.
“I ragazzi dal nostro cortile”, vuol dire più o meno questo

Un giocatore come Arshavin però decide di smettere quando il suo corpo glielo suggerisce caldamente. E nel 2015 non è così, quindi accetta l’offerta del Kuban, convinto dall’amico Pavlyuchenko. Anche in questo caso appena 9 presenze e un contributo trascurabile. Il sindaco di Krasnodar lo ha portato nella sua squadra più per raccogliere consensi elettorali che per altro. Sarebbe il momento di smettere, oppure di andare a giocare con un altro amico. Tymoshchuk lo convince a spostare la sua residenza un po’ più a est, in Kazakhistan per la precisione.

Il Kairat Almaty gli offre un generoso contratto, e la prospettiva di tornare ad essere il più forte del parco giochi lo attrae non poco. Prende la squadra all’ottavo posto e la trascina al secondo, torna a giocare in maniera istintiva, senza regole, soltanto lui e la porta qualche metro più in là. Qualcuno (ad esempio il sottoscritto) sogna di rivederlo in un palcoscenico europeo; quest’anno il Kairat si è fermato al secondo turno di qualificazione all’Europa League, condannato da un gol all’86° in casa del Maccabi Tel-Aviv. Il contratto di Arshavin è scaduto a dicembre. Di ritiro ancora non si è parlato, in Kazakhistan fa ancora tutta la differenza del mondo e anche da un punto di vista esistenziale la sua vita scorre serenamente.

Quando un giocatore fallisce le opportunità che il suo spropositato talento gli offre, spesso si tende ad identificare la testa – intesa come deficit caratteriale – come elemento distruttivo di quello che sarebbe potuto essere. Poi dai uno sguardo a quello che ha fatto Arshavin fuori dal campo e ti accorgi che ha scritto un paio di libri (non dei best-seller, ma insomma), è laureato in design ed è un maestro di scacchi. Probabilmente ha ragione Petrosyan. Nel calcio russo manca l’ambizione di diventare il migliore, perché la mente di Arshavin avrebbe potuto tutto, ma forse non lo ha mai voluto. Ci rimane la legacy di un giocatore che nel suo paese è stato un eroe e insieme un villain, capace di farsi idolatrare e demonizzare in base al periodo storico e alla fase lunare. Poi toccava la palla, alzava l’indice alla bocca, e diventava per tutti lo Zar.