Le grandi sconfitte: l'utopia dell'Arancia Meccanica di Michels e Cruijff - Zona Cesarini

Le grandi sconfitte: l’utopia dell’Arancia Meccanica di Michels e Cruijff

Mettetetevi comodi, amici. Preparate la birretta fresca e tenetevi a portata sigarette e accendino. Perché questa è una storia lunga. È la storia di come cambiò il calcio. La storia dell’Arancia Meccanica.

Gli anni ’70. Figli della contestazione, della Guerra in Vietnam, del Maoismo e della richiesta di libertà di costumi. Figli di una rivoluzione strozzata a metà, si dirà. E il calcio segue l’onda. È tempo di cambiamenti. Senza rimpianti, ma con l’amaro finale in bocca per quello che sarebbe potuto essere e non fu.

L’idea rivoluzionaria è quella del Totaalvoetbal, il calcio totaleRinus Michels ne è il pensatore. Johan Cruijff ne è il condottiero. L’Olanda ne è più che mai l’esercito di liberazione. Sconfitto due volte alla soglia del trionfo.

Terre di libertà, i Paesi Bassi, fin dalle origini, quando si liberarono dal dominio spagnolo nel XVI secolo e si dettero un ordinamento repubblicano e federale. L’idea di libertà, combinata con quella della coralità, è il cardine della concezione calcistica che Michels vuole applicare. Una concezione che aveva visto abbozzata di persona quando, in gioventù, era stato agli ordini del mitico Jack Raynolds, allenatore inglese di un Ajax post-bellico. Che chiedeva a lui e ai suoi compagni tanta corsa e tanto sudore, ma con un fine preciso: poter attaccare sempre.

Più o meno nello stesso periodo, oltre la cortina di ferro, a Budapest, c’era chi cercava sbocchi pratici all’atletismo socialista e all’applicazione del collettivismo sul rettangolo verde. E la numero nove finì sulle spalle di un’ala che giocava accentrata. Primi segnali di un calcio nuovo che si concretizzerà solo anni dopo. Nel ’66, per esempio. Quando Michels tornò all’Ajax da allenatore.

Rinus Michels
Rinus Michels

Rinus volle portare a fondo lo sviluppo di queste tendenze calcistiche per trarne una teoria tattica coerente e completa. È la nascita del 4-3-3. E della Zona. Ora al rispetto del modulo e delle posizioni in campo contribuiscono tutti i giocatori. Rotazione permanente. Se uno avanza, l’altro rientra. Se uno va a destra, l’altro va a sinistra. Se uno segna, è perché in gol lo hanno mandato tutti.

È un’idea innovativa, che manderà progressivamente in pensione l’idea dei match di calcio come partite a scacchi. La squadra è ben più di una somma di singoli. È una collettività. Lì sta la sua forza: correre meglio per correre di più.

E così inizia l’era del Glorioso Ajax. In meno di un decennio gli olandesi vincono 6 campionati, 4 coppe nazionali, 3 Coppe dei Campioni, una Supercoppa europea e una coppa Intercontinentale, prima sotto la guida proprio di Michels, poi sotto la fedele successione del rumeno Kovacs, con il quale nel ’72 i Lancieri realizzeranno iltreble, battendo nella finale della coppa dalle grandi orecchie l’Inter. E a dirigere la sinfonia in campo c’è un maestro d’eccezione: Johan Cruijff. Il profeta del gol. Il Pelè Bianco.

In Spagna l’avrebbero chiamato l’Olandese Volante, dopo un gol di tacco volante in un Barcellona-Atletico Madrid. Quel 9 che del 9 non aveva nemmeno il numero. Un centravanti reinventato, un trequartista avanzato, un uomo assist con il vizio del gol. Ora lo si chiamerebbe falso nueve. Un concentrato di classe e intelligenza, capace di far qualunque cosa in campo, dal far partire l’azione al chiuderla in gol. Il tutto combinato con un grande altruismo (amava l’assist ben più che il gol) e un carisma che metteva soggezione.

Era come se Cruijff fosse la personificazione stessa del totaalvoetbal. Il calciatore perfetto. Ma Cruijff era destinato ad esser pure altro. Ovvero un divo, una stella. Ed era uno che il suo carisma (e il suo curriculum) lo faceva pesare all’interno dello spogliatoio. Nell’Ajax, nel Barca, e soprattutto in nazionale.

Cruijff c’era cresciuto, nell’Ajax di Michels, ne era l’idolo, la bandiera. Ed il profeta in campo. Con quella maglia numero 14 che stava lì quasi ad indicare il superamento di quella correlazione biunivoca rigida tra ruolo e giocatore. E ci aveva vinto tutto, compreso il Pallone d’Oro, nel segno del nuovo calcio totale.

L’idea rivoluzionaria appare vincente, l’Olanda è il “paese guida” del calcio europeo, anche grazie alla rivale storica dell’Ajax, il Feyenoord, anch’essa applicatrice del calcio totale e anch’essa vincente a livello nazionale e internazionale a cavallo tra ’60 e ’70. Manca all’appello la selezione oranje, che fallisce per l’ennesima volta la qualificazione all’Europeo proprio mentre l’Ajax si mette in bacheca tutte le coppe possibili.

L’ultima competizione internazionale a cui gli olandesi avevano partecipato era Francia ’38 – quella di Leonidas e del secondo titolo per gli azzurri – peraltro uscendo fin da subito. Allora ecco la mossa a sorpresa della Federazione olandese: Michels CT. Appositamente per i mondiali, senza lasciare il Barcellona con il quale aveva appena vinto la Liga grazie anche alle grandi prestazioni del suo pupillo Cruijff.

Vigilia dei mondiali ’74, dicevamo. Ospita la Germania Ovest. L’Olanda si appresta a insegnare una nuova idea di gioco al mondo intero, anche se nessuno ancora lo sa. Michels attua la propria rivoluzione nella nazionale. Con scelte che appaiono folli. Ad esempio, si porta con se tutti i campioni della generazione d’oro oranje, nonostante questo significhi ritrovarsi due blocchi ferocemente divisi e rivali all’interno dello spogliatoio.

Le fucine dei campioni sono infatti Ajax e Feyenoord, rivali alla morte in campo come lo sono le città di Amsterdam e Rotterdam. Una rivalità ben più che sportiva, ma economica, politica, sociale. Amsterdam è la capitale politica “rossa”, “sionista”, “spendacciona”, “turistica”, “parassitaria”. Rotterdam è il cuore economico “destroide”, “borghese”, “provinciale”, “collaborazionista” , “nazista” dell’Olanda. Livelli di odio che rendono tutt’oggi il Klassieker uno dei derby più a rischio d’Europa.

Gli effetti di questa violenta rivalità si videro anche con la Nazionale schierata, quando nel ’62, in un’amichevole giocata ad Amsterdam, i tifosi di casa in uno stadio semideserto iniziarono a tempestare di offese i giocatori tesserati nel Feyenoord, poi accusati a fine gara dai compagni dell’Ajax di esser colpevoli della sconfitta. Apriti cielo.

I giocatori di Rotterdam per un anno si rifiutarono di rispondere a qualsiasi convocazione, accettando una tregua e il ritorno in maglia oranje solo in occasione di un’altra amichevole giocata stavolta “in casa loro”. Da allora di fatto mai ci si era azzardati a ricreare i due blocchi rivali in nazionale (peraltro con risultati mediocri sul campo).

Ecco, pensate a queste rivalità, peraltro reinfuocate dagli strascichi degli anni della contestazione, che devono convivere in un’unica selezione calcistica. Pazzo Michels, si penserà. Ma ancora non avevano visto il meglio. C’è da scegliere il portiere, e il ct chiama Jan Jongbloed, un 34enne semi-professionista che cura più il tabaccaio di famiglia che la tecnica tra i pali.

Jongbloed e Cruijff
Jongbloed e Cruijff

In nazionale c’aveva giocato, per carità. Ben 12 anni prima però, proprio in quel ’62 che vide i tulipani spaccarsi e rimanere orfani dei talenti del Feyenoord. Oltretutto Jan quella volta finì a raccogliere 4 volte il pallone in fondo al sacco. La sua convocazione sembrava una decisione priva di senso. In realtà no. C’erano due motivi a fondo nella scelta di Michels: uno tecnico e uno politico.

Quello tecnico, era insito nei concetti del totaalvoetbal, quel calcio che vedeva il portiere come difensore aggiunto, come libero. Quindi uscite spericolata, posizione alta e discreta tecnica e visione con i piedi. Metodi di gioco che Jongbloed aveva nelle corde. E questo spiega il perché la scelta del portiere cadde sul tabaccaio di Amsterdam.

Ma non spiega perché il precedente titolare fu silurato. Specie tenendo conto che questi era Jan van Beveren, appena 26 anni nel ’74 e già veterano dei tulipani e idolo dei tifosi del PSV. Un antidivo pure lui, per il suo carattere gentile, quasi schivo. Ma con una grinta da leone. Era uno che, in una gara di campionato, si era fatto ricucire la lingua nell’intervallo ed era tornato in campo per la ripresa, dopo aver giocato mezzo primo con la bocca piena di cotone e un paio di denti in meno.

Ed era uno che si fece praticamente tutta la stagione ’73-’74 acciaccato, per un infortunio all’inguine rimediato nell’ultima partita del girone di qualificazione ai mondiali contro il Belgio. Uno 0-0 ottenuto grazie alle sue parate che qualifica l’Olanda per la migliore differenza reti. Alla fine, i tempi del recupero sembrano esserci per esser pronti per il mondiale. Ma c’è chi lavora contro di lui. La tregua armata dei clan in nazionale è sì ottenuta da Michels, ma ad un chiaro prezzo: il gruppo Ajax comanda, e Cruijff è il leader assoluto. I giocatori del Feyenoord sono ammessi ma non hanno voce in capitolo.

Gli altri, fuori. E van Beveren è fra gli “altri”. Ben pochi tra i convocati non sono tesserati né con l’Ajax, né con il Feyenoord. Quelli che vengono da squadre terze o sono destinati ad essere riserve o giocano all’estero. E Van Beveren non può essere una riserva. Ma per sua sfortuna gioca in patria. Ergo, non deve arrivare in Germania Ovest, e infatti sarà così.

Il pretesto è proprio il suo infortunio. Viene convocato per un test non ufficiale. I veterani del gruppo giocheranno solo 45 minuti. Da lui se ne vuole novanta. Per vedere se è pronto, si dirà. Lui rifiuta, teme sia una mossa prematura, e forse la vede come una mancanza di rispetto. E allora deve tornare a casa. Stessa sorte pure per il suo compagno al PSV van der Kuijlen, stella dei Boeren e nientemeno che il miglior realizzatore di sempre del campionato olandese, nel ’74 fresco capocannoniere dell’Eredivise con 27 reti.

I grandi esclusi del PSV: van Beveren e van der Kuijlen

Ci possono essere motivazioni logiche dietro questa imposizione di Cruijff-Michels. Quali l’evitare la deflagrazione totale dello spogliatoio causa creazione di un terzo blocco, targato stavolta PSV (che porterà in oranje solo i giovani gemelli Van de Kerkhof, perni della nazionale del ’78 ma all’epoca solo talenti comprimari). O per una scarsa confidenza di certi giocatori con gli automatismi che il calcio di Michels richiede. Ma rimane ben più che un sospetto il pensiero che in realtà semplicemente Cruijff non voglia altri galli nel pollaio. In occasione di un’amichevole nel ’75, quando van der Kuijlen e van Beveren si rividero in nazionale, il primo sarcasticamente sussurrò al secondo:

“Ecco, sono arrivati i Re dalla Spagna…”

Riferendosi all’arrivo con un giorno di ritardo di Cruijff e Neeskens, allora compagni nel Barcellona, nel ritiro dei tulipani. Clima pesante. Ed ecco l’ennesima novità di Michels: tutti in ritiro. Con mogli e bambini. Sì, gli olandesi combinano una preparazione atletica eccezionale con la massima libertà nel tempo libero. Scelta saggia, considerando che fuori dal rettangolo di gioco i calciatori si odiano. Meglio farli rilassare come preferiscono, piuttosto che obbligarli ad una convivenza forzata. E l’autogestione del tempo libero pagherà bene.

Al via della competizione mondiale, l’Olanda nonostante tutto è pur sempre una outsider. Ha davanti i padroni di casa della Germania Ovest, il Brasile campione in carica, l’Argentina, l’Italia. Eppure all’esordio è proprio l’Olanda a stupire. Prendendo a schiaffi l’Uruguay con un 2-0 divertente, fresco, brillante. Moderno.

Il tutto mentre il Brasile orfano di Pelè annaspa 0-0 contro la Jugoslavia e l’Italia contro Haiti si trova costretta a sfangarla in rimonta per 3-1, con Chinaglia che vistosi sostituire da Anastasi esce dal campo mandando tutti a quel paese.

Meglio non fanno gli argentini, battuti 3-2 dalla sorprendente Polonia di due future leggende, Deyna e Leto. E così alla fine della prima fase a gruppi molte certezze del pronostico sono ribaltate. L’Olanda vince il girone nonostante un pari con la Svezia (qualificatasi al turno successivo dietro gli olandesi) ed è imbattuta dopo tre partite (all’ultima giornata gli oranje battono 4-1 la Bulgaria), questo nonostante le premesse che volevano lo spogliatoio dei tulipani come una bomba ad orologeria.

Invece ad esplodere è la bomba tattica olandese, con il suo fuorigioco sistematico, il costante interscambio delle posizioni, il pressing a tutto campo ed una squadra alta subito pronta ad attaccare in forze. Cose che non si vedevano in campo all’epoca. Come non si vedeva un portiere giocare con la maglia numero 8. Figlio della decisione di Michels di assegnare i numeri in rigoroso ordine alfabetico, senza nemmeno distinguere tra reparti. Un vezzo, si potrebbe dire. Una boutade.

Ma è anche una scelta che è insita nell’ideologia del calcio totale, che nelle sue vette utopistiche aspira al superamento del ruolo e alla completa intercambiabilità dei giocatori, chiamati a saper svolgere ogni ruolo anche al di là delle proprie caratteristiche tecniche. Egualitarismo calcistico. Con un’eccezione: il capitano, Cruijff.

Cruijff rimane il centro gravitazionale della squadra, attorno alla quale i compagni si muovono. Johan ebbe il privilegio di scegliere il suo numero di maglia: opterà per il suo 14, che al Barca gli era negato dalle ferree regole sportive del franchismo (in campo si va dall’1 all’11) e che è coerente più che mai con l’idea di gioco degli olandesi.

Perché non era un 9, non era un 10, né un 11 o un 7. Cruijff era solo il numero 14, alla guida di quella meravigliosa macchina del pallone. L’Arancia Meccanica.

arancia meccanica olanda formazione

Una difesa solida e dal tasso tecnico altissimo: Martellini definì Krol (i tifosi partenopei se lo ricordano) “sprecato in difesa“, visto il piede elegante che si ritrovava. Lui e Suurbier sono due stantuffi sulla fascia, antesignani del terzino di spinta moderno. In mezzo la distinzione tra libero e stopper tende a scomparire. I due centrali giocano in linea, e si distinguono più che altro per il loro diverso stile di gioco: Haan è un vero regista arretrato, è lui che fa partire l’azione, rigorosamente palla a terra, mentre Rijsbergen è un marcatore tignoso un po’ vecchio stile.

Se cercate un libero, cercate il numero 8, quello con la maglia da portiere. È Jongbloed che, se qualcosa va storto, è chiamato ad intervenire in maniera spericolata. Progenitore di Neuer, privo dell’eleganza del tedesco tra i pali, ma non di una certa efficacia.

Un centrocampo emblema della democrazia calcistica: tutti fanno tutto, tutti sono uguali. Chi ha la palla è regista, gli altri due si smarcano, in un ciclo continuo di scambi e movimenti. Neeskens ne è il miglior interprete, è un giocatore capace di stare con ugual efficacia in qualsiasi posizione del campo (sarà lui il miglior realizzatore dei Tulipani). Forse lo si sarebbe potuto provare persino in porta. E comunque la coppia targata Feyernoord Jensen-Van Hanegem non è da meno.

Un attacco esplosivo: Cruijff è primus inter pares, formalmente centravanti, in realtà libero di svariare su tutto il fronte offensivo. È semplicemente immarcabile, per la sua capacità di stare ovunque e di saper partire da qualunque posizione, questa combinata con un livello tecnico superiore. Un vero e proprio pivot applicato al calcio. Che rende facili le cose ai due compagni piazzati come esterni d’attacco, Rensenbrink e Rep, ambidestri veloci e abili nel dribbling, capaci di segnare e far segnare.

Arancia Meccanica

Questa Olanda è nemesi di molte delle favorite, in primis dell’Italia di Valcareggi, quintessenza del catenaccio e contropiede, e lei sì deflagrata dall’interno: divisa in mille fazioni sportive e geografiche (Chinaglia denunciò la Federazione di aver raccomandato i giocatori delle squadre del nord ai danni delle squadre meridionali – quale era considerata, all’epoca, la Lazio – nonostante i biancocelesti fossero campioni d’Italia) e tormentata dall’equivoco tattico della convivenza tra Rivera e Mazzola.

Gli azzurri poterono ben presto affrontare la questione con calma, dato che il girone lo passò un’Argentina troppo brutta per essere vera grazie ad un gol in più rifilato ad Haiti (4-1) e alla contemporanea caduta di Zoff e compagni contro la schiacciasassi polacca, in una partita su cui aleggiò il sospetto di una combine mai concretizzata.

E le grane non mancano nemmeno alle altre “favorite”. Il Brasile spuntato segna il suo primo gol nel mondiale alla terza partita, contro lo Zaire, in un match che rimarrà nella storia per questa punizione:

Anni dopo si saprà il perché di quel gesto, apparentemente privo di senso. Il match comunque è vinto con un 3-0 che risulterà decisivo per il passaggio del turno dei verdeoro, poichè con tre squadre ritrovatesi a 4 punti è la Scozia ad esser eliminata a causa della sua “clemenza” contro gli africani battuti 2-0, mentre la Jugoslavia già li aveva umiliati con un devastante 9-0.

Persino i tedeschi padroni di casa, pur confermandosi una squadra compatta e di qualità, hanno la propria nota stonata. Passano sì il turno, ma come secondi. Sconfitti dopo due vittorie nientemeno che dai fratelli dell’Est. Un 1-0 a favore della DDR firmato Jürgen Sparwasser, che al minuto 78 manda idealmente la classe operaia in paradiso e materialmente la Germania orientale al turno successivo come testa di serie.

Ai gruppi del secondo turno l’Olanda è inserita nel più classico dei gironi di ferro: Brasile, Argentina e la sorpresa DDR. Chi arriva primo va in finale, la seconda va alla finalina per il terzo posto. E gli olandesi senza perdere tempo infilano 3 vittorie, dove spicca il sonoro 4-0 rifilato all’Albiceleste. L’Argentina è umiliata in una partita dove il risultato finale sta pure stretto agli Oranje.

Sorte non dissimile toccherà al Brasile, arrivato all’ultima giornata contro l’Arancia meccanica con solo la vittoria come risultato utile (l’anemico attacco verdeoro ha superato solo a fatica e per un gol sia un’Argentina con la testa già a casa, sia una più che onorevole Germania Est) e ritrovatosi invece a difendersi con garra sudamericana dal costante ed estenuante assedio olandese, risoltosi con un 2-0 targato Neeskens e Cruijff.

L’altro gruppo vede vincitori i padroni di casa, che al 74° dell’ultima gara in programma interrompono la favola polacca: un insuperabile Tomaszewski, che al 53° aveva fermato pure un rigore di Hoeness, è finalmente battuto da un tiro imparabile firmato da Gerd Muller. 1-0 per la Germania ovest, e tedeschi in finale. Lato e compagni si consoleranno con il terzo posto, ottenuto grazie all’1-0 contro il Brasile.

7 luglio 1974, Monaco di Baviera: è la finale dei mondiali di calcio. Olanda contro Germania Ovest. Innovazione contro tradizione. Due squadre perfette nella loro antiteticità. Alla spumeggiante democrazia calcistica olandese si contrappone la ferrea gerarchia della granitica squadra tedesca. Guidata ancora da Kaiser Franz Beckenbauer, uno che in campo ci stava pure con la spalla lussata, e con in avanti un giocatore che è quasi la nemesi di Cruijff: Gerd Muller. Se l’olandese è l’antesignano del falso nueve, del giocatore che spazia in campo e sa far tutto, Muller è la massima espressione del numero 9 classico.

Tozzo, poco elegante, discreta tecnica ma nulla di più, poco mobile e abituato a piantarsi in area di rigore. Ma ogni pallone che tocca diventa un gol. È l’indispensabile finalizzatore implacabile, di una squadra basata essenzialmente su una difesa ferrea. Se la Germania era un panzer, lui ne era la bocca da fuoco. Un calibro 68, come le reti che segnò in nazionale in 62 presenze.

Quella sarebbe stata la sua ultima partita in nazionale. Lo aveva dichiarato, furioso, quando l’anno prima la Federazione tedesca si era messa di mezzo per impedire il suo trasferimento al Barcellona di Cruijff. Sarebbero potuti essere la più forte coppia d’attacco di tutti i tempi. Ma l’affare sfumò, e i due si trovarono in campo solo così, da avversari, in una finale che sarebbe entrata nella storia.

Gerd Muller
Gerd Muller

L’Olanda batte il calcio d’inizio. I tedeschi si posizionano in attesa, gli oranje fanno girare il pallone. Cruijff riceve palla a centrocampo. E parte. Un’accellerazione devastante. Una percussione centrale che i tedeschi non riescono a fermare. Se non in area, ma con un intervento irregolare. Hoeness ha steso il numero 14, è calcio di rigore.

Sono passati appena 53 secondi dal fischio d’inizio. Neeskens va dal dischetto: gol. L’Olanda è in vantaggio. I teutonici invece ancora devono riuscire a toccare il pallone. E la grande utopia sembrò a tutti diventare realtà.

 Arancia meccanica
Neeskens batte Maier: Olanda in vantaggio

Non sarà così. Troppo presto è arrivato il gol per gli olandesi. Non erano pronti. Non ancora. Vittime di loro stessi, non avranno la testa per gestire quello che le gambe avevano creato. Non pungono, non attaccano, ma tendono a controllare con un possesso palla sterile al quale non sono abituati. È un cortocircuito. I tedeschi, in campo e sugli spalti, riescono a riprendersi dalla botta tremenda e si fanno in avanti.

Al minuto 24, Jansen falcia Holzenbein in area. L’arbitro fischia nuovamente la massima punizione. Breitner dal dischetto batte Jongbloed. 1-1. Al 44esimo è ancora la Germania che attacca: Bonhof va in dribbling e la mette in mezzo. C’è Muller, che si libera della marcatura del difensore, fa un aggancio da grande centravanti e conclude diagonale in torsione che prende in controtempo il portiere olandese. 2-1.

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Olandesi attoniti: Muller ha segnato, Germania Ovest è in vantaggio

La partita finirà qui. Il secondo tempo vedrà gli olandesi costantemente all’attacco ma incapaci di trovare la minima falla della difesa tedesca. Berti Vogts non si perderà più Cruijff, e il portiere Maier risulterà insuperabile. Sarà Kaiser Franz ad alzare la nuova coppa del mondo Fifa, e non il Profeta Johan.

L’Arancia Meccanica, sconfitta, si rompe. Dopo Euro ’76, la polveriera che era lo spogliatoio olandese scoppiò in seguito ad un amaro terzo posto. E Cruijff, pure trascinatore degli oranje anche nel successivo tragitto delle qualificazioni ai mondiali argentini del 1978, annunciò il ritiro dalla nazionale, per motivazioni personali e con un vago intento di protesta nei confronti del regime militare di Buenos Aires.

E se per Argentina ’78 l’Olanda stavolta è tra le favorite per la vittoria, poiché è sempre ben limpida nella memoria collettiva l’immagine della squadra di quattro anni prima, l’aria che si respira in casa oranje è diversa. Quell’Olanda era troppo bella per essere vera. E questa, priva del suo profeta, stanca, invecchiata di 4 anni, sente il peso di quello che sarebbe potuto essere e non fu.

Senza contare che i tulipani hanno tracciato la via, e gli altri imparano. Cruijff è stato sì profeta, ma per tutti, perché l’Arancia Meccanica ha fatto scuola L’Italia, ad esempio, è stata rinnovata da cima in fondo, e si presenta con un’inaspettata propensione offensiva che entusiasma. L’Argentina, sotto la guida del Flaco Menotti, ha combinato il collettivismo del calcio totale con la grinta tipica di quello sudamericano. E per gli olandesi non c’è più nemmeno il vate Michels in panchina, ma c’è l’austriaco Happel, colui che aveva vinto tanto con l’altra squadra olandese, il Feyenoord.

"El Flaco", Cesar Luis Menotti
“El Flaco”, Cesar Luis Menotti

Le finaliste di quattro anni prima non sembrano stare bene. All’Olanda mancano Cruijff e van Hanegem, alla Germania Ovest Beckenbauer e Muller. Entrambe superano il girone eliminatorio a fatica, la prima solo grazie alla differenza reti favorevole sulla Scozia (che pure si era affermata su Neeskens e compagni per 3-2), la seconda con un magro 0-0 sulla Tunisia, che pure aveva sfiorato la beffa di qualificarsi mandando a casa i campioni in carica.

Il girone successivo è carico di amarcord: Olanda, Germania, Italia e la sorpresa Austria, che si era piazzata davanti al Brasile nel turno precedente. C’è la rivalità austro-tedesca, c’è la partita del secolo di Messico ’70, c’è la finale del ’74. E l’Olanda si rianima. L’Austria è asfaltata per 5-1, mentre gli azzurri fanno collezione di pali nello 0-0 contro i tedeschi.

Nella giornata successiva i risultati si invertono: sono gli oranje a pareggiare contro la Germania Ovest con una doppia rimonta, mentre l’Italia batte 1-0 l’Austria sancendone l’eliminazione. Dopo due giornate i tedeschi sono praticamente fuori dalla finale, ma possono sperare nel terzo posto battendo l’Austria; mentre Olanda e Italia si giocano tutto in uno scontro diretto. Gli azzurri, belli da vedere come non mai, ma stanchi dal tour de force contro le due compagini teutoniche, passano in vantaggio grazie ad un’autorete ma poi cadono nella ripresa con due sassate da distanza siderale targate Brandts e Haan.

Happel ringrazia un incerto Zoff e se ne va in finale, ma agli azzurri rimane la consolazione della “finalina” (persa contro il Brasile schierando numerose seconde linee) perché la Germania Ovest cade clamorosamente per 3-2 in una partita iniziata a ritmi bassi e conclusa con 4 gol nell’ultima mezz’ora, tre dei quali targati Austria. Krankl con il suo secondo gol all’88° sarà l’eroe del miracolo di Cordoba.

Gli austriaci festeggiano il gol del 3-2 firmato Krankl: è il <em>Wunder von Córdoba</em>
Gli austriaci festeggiano il 3-2 firmato Krankl: è il Wunder von Córdoba

E l’Olanda è di nuovo in finale. Un tulipano un po’ appassito ma che sta ancora lì, sul tetto del mondo. Di fronte ci sono i padroni di casa, l’Argentina di Passarella. E dei generali della giunta militare. Che pur di vincere il mondiale hanno tollerato in panchina il comunista Menotti e le sue idee progressiste, in campo e fuori.

Ma si sono dati da fare anche in altra maniera per quella che deve essere la loro vetrina sul mondo, buona per dare l’immagine di un paese pulito, ordinato ed efficiente, e che faccia dimenticare le voci sulle torture del regime, i desaparecidos e le proteste silenti delle madri di Plaza de Mayo.

Nel primo girone, solo l’Italia supera l’Albiceleste, all’ultima giornata e quando entrambe erano già qualificate. Ma la vittoria argentina con la Francia pochi giorni prima è macchiata da un rigore dubbio assegnato a favore e uno netto negato ai Bleus.

E peggio accade nel secondo girone. Il Brasile è decisamente rianimato e anche i polacchi sono un osso durissimo, ma i ragazzi di Menotti brillano contro la Polonia grazie alla doppietta di SuperMario Kempes. I verdeoro rispondono battendo sia il Perù che gli est-europei, mentre fra le due sudamericane ne esce un teso 0-0. Manca una sola partita, Argentina-Perù. Beata la contemporaneità dell’ultimo match, sacrificata sugli altari televisivi del regime.

Il Brasile è a 5 punti, con un +5 di differenza reti e 6 gol fatti. L’Argentina è a quota 3, con 2 reti fatte e 0 subite. Serve una vittoria per 4-0. E scatta la combine, la famigerata marmelada peruana. L’antipasto è scatenare gli ultras argentini sotto l’albergo della Blanquiroja la notte prima del match, poi si prosegue con il giro turistico forzato per Rosario, dato che il pullman che portava i giocatori peruviani allo stadio ci mise due ore – e parecchie svolte sbagliando strada – per coprire i 15 minuti di tragitto tra stadio e albergo.

Infine il dessert è la presenza, a sorpresa, tra i pali del Loco Quiroga, una pippa di portiere peraltro nato e cresciuto in Argentina e naturalizzato peruviano solo nel 1977. La marmelada è servita. Gli argentini vinceranno 6-0 e andranno in finale. Anni dopo, Quiroga ammise la combine e si scoperchiò un pentolone fatto di finanziamenti al governo di Lima di provenienza sospetta, servizi segreti USA e cartelli della droga.

Povera Olanda. Condannata a giocarsi una partita che non può vincere. Una farsa. Eppure ci provano. Si gioca nell’inferno del Monumental di Buenos Aires. L’Argentina passa presto in vantaggio con il solito Kempes, ma gli olandesi ci sono e rispondono botta su botta. Si lanciano all’attacco, contrastati dal gioco durissimo di Passarella e soci e da una certa tolleranza dell’arbitro, l’italiano Gonnella. All’81esimo Ninnanga, da poco subentrato a Rep, trova il pari di testa.

Tutto si riapre. E per un attimo la grande utopia olandese sembra pronta, finalmente, a salire sul tetto del mondo. Fino al minuto 90. Lancio lungo dalla difesa, gli argentini vanno fuoritempo. Rensenbrink si butta sul pallone e piazza una zampata da posizione defilata. Fillol è battuto e… palo!

La storia della grande Olanda finisce qui. Su quel palo di Rensenbrink all’ultimo minuto. Il resto è cronaca. L’Argentina vinse il mondiale che non poteva perdere, segnando altre due reti nei supplementari, e l’Olanda ritornò una nazionale normale finò all’arrivo della nuova generazione di campioni: Gullit, Van Basten, Rijkaard. Gli unici (finora) capaci di portarsi a casa un trofeo indossando la maglia arancione: l’Europeo ’88.

Con in panchina a guidarli proprio lui, Rinus Michels, che battè il suo allievo dell’est, il colonnello Lobanovsky, comandante di un’Armata Rossa calcistica divertente e spregiudicata qual’era la nazionale dell’URSS nell’ultimo lustro della sua esistenza.

Nacque così la leggenda dell’Arancia Meccanica, la grande utopia del calcio totale che non poteva vincere mai. Ma la storia, al di là del romanticismo che aveva quella meravigliosa squadra, ci racconta altro. Il totaalvoetbal olandese ha introdotto concetti rivoluzionari, ed è il fondamento tattico del gioco che vediamo oggi.

Di quello più bello, più entusiasmante, più elegante da vedere. Da Lobanovsky a Zeman finendo a Guardiola e al suo tiki-taka, il padre di quel gioco è sempre lui, Rinus Michels, e il Profeta ne è sempre lui, Johan Cruijff. Tutti hanno appreso, e anche chi ora fa del difensivismo il suo mantra non transige dai dettami di quello stile: la preparazione atletica, gli scambi di posizione, il pressing a tutto campo. Rispetto al gioco dell’epoca, ogni squadra di ora segue ed applica quelle novità introdotte dalla scuola olandese degli anni ’70.

Cruijff Argentina Olanda arancia meccania
Cruijff segna il primo gol contro l’Argentina. La faccia del difensore Heredia dice tutto

Quello che il campo negò, la storia restituì. L’Olanda, rivoluzionaria ma mai vincente, ha letteralmente insegnato come si gioca a calcio al mondo intero. E, alla fine, agli aridi capaci di sbandierare solo trofei e vittorie senza nulla capire della poesia di quella sfera di cuoio, non resta che guardare le bacheche dei club e dei calciatori, dell’epoca e di ora. Dell’Ajax degli anni ’70 e del Barcellona degli ultimi trent’anni. Di Cruijff e di Messi.

Ecco, ora mettetevi lì a pensare se quel calcio non fosse un modello vincente. Per chi è romantico, o visionario, basta l’utopia compiutasi per 53 secondi. Quei primi 53 secondi della finale del ’74.